Sparala ancora, vecchio West. Com'è che il cowboy è sempre dentro di noi
Dov’è il West, fratello? E’ là, lontano, alla frontiera. Tu non lo vedi ora, ma puoi sentirne la brezza prepotente, il sole cocente, la vibrazione sinistra del serpente a sonagli sotto il sasso rovente, lo scalpiccìo del torrente sulla pietra levigata, la polvere che scartavetra la fronte. C’era una volta il West. Eccolo, ora è qui.
Siamo noi il West. La cerimonia dei Golden Globe ci ha consegnato, ancora, inesorabilmente, la staccionata, il saloon, le pistole, i cavalli e i caballeros, i gringos e i pistoleros, gli indiani e la diligenza. Hollywood, chi altri?, ha proiettato nella nostra anima, di nuovo, inevitabilmente, le ombre rosse, le diligenze, gli aceri e le sequoie, il gelo sferzante, i volti scavati dal dolore, i fucili, il piombo caldo, gli indiani, il saloon e “non sparate sul pianista”, il Grand Canyon e corna di satasso! ecco riemergere l’infanzia e Tex Willer cavalcare nella Monument Valley. Dove vai, Aquila della Notte? Dov’è il West, fratello? E’ qui, immortale, in celluloide e pixel. Siamo noi il West, è dai tempi di John Ford che la sua diligenza non smette di correre. E’ il bang! della Colt, un clac! di Whinchester. E neve, fiocchi di neve che colano dal cielo. Nevica sempre, nel West. Golden Globe per The Hateful Eight, che racconta quello che deve raccontare un film western: l’ultima corsa della diligenza di Red Rock, un gruppo di anime allo sbando intrappolate dalla tormenta in un saloon, la musica di Ennio Morricone, tamburi, fiati, voci, archi, l’estasi musicale e il nevoso Wyoming. Golden Globe per Revenant, la storia di un trapper e della sua vendetta, la lotta sovrumana di Hug Glass contro il Destino e i denti di un grizzly, l’assassinio e la resurrezione, nel nevoso North Dakota.
Quentin Tarantino e Alejandro Gonzales Inarritu non sono scesi alla foce, ma sono risaliti come esploratori fino alla sorgente del cinema e del nostro immaginario: il West.
Dov’è il West, fratello? E qui, per questo vince premi a man bassa e ammalia lo spettatore. Riaccende una fiammella, galoppa a cavallo nell’isola di Utopia. In “Fractured Times”, una formidabile raccolta di saggi di Eric Hobsbawm – cucita con il fil rouge della crisi, della “frattura” della cultura borghese – c’è un originalissimo saggio intitolato “Il Cowboy americano: un mito internazionale?”. La cavalcata dello storico marxista lascia l’orma dello zoccolo sul sentiero, perché il mito del cowboy, per Hobsbawm, è un taglia e cuci dell’irrealtà, il racconto di vite ai margini della grande storia americana, ma frutto di una fiction così suadente da diventare “il prodotto delle epoche di Kennedy, Johnson, Nixon e Reagan”. E non è forse questo il mito? Reagan, un attore di Hollywood, fu il primo dopo Teddy Roosevelt a proporsi come un uomo catapultato alla Casa Bianca direttamente dal set di un western e “sapeva quello che faceva”. Cinturoni, stivali da comancheros (guardacaso, titolo di un film del 1961 con Lee Marvin e John Wayne), il cappello da cowboy disegnato da John B. Stetson, il cui nome originale era Boss of the plains, boss della pianura, furono l’immagine del reaganismo, come poi furono icona della famiglia texana dei Bush, il clan politico più importante nella storia degli Stati Uniti insieme a quello dei Kennedy e (forse, vedremo cosà farà Hillary alle presidenziali) dei Clinton.
[**Video_box_2**]Dov’è il West, fratello? E’ in America, risponde a questo punto lo spaesato della prateria. No, è qui, ancora una volta, implacabilmente, è tra noi. Perché anche l’Europa aveva bisogno di un immaginario “antico”, artefatto, mitologico, sentiva il richiamo della foresta, dei cavalli e dei cavalieri. E fu proprio l’Italia a decostruire e ricostruire quel mito. Ancora Hobsbawm: “Qualunque cosa significhino gli spaghetti western, erano senz’altro profondamente critici nei confronti del mito del western statunitense e in questo dimostravano paradossalmente quanto richiesta ancora di vecchi pistoleri ci fosse presso gli adulti sia europei che americani. Il western fu resuscitato da Sergio Leone, o da Akira Kurosawa, vale a dire attraverso intellettuali non americani imbevuti della tradizione e dei film del West, ma scettici riguardo alla tradizione inventata americana”. Dov’è il West, fratello? Scendi dal cavallo, sei arrivato. Siamo noi, il West.