Profondo Rep.
Segnalo agli storici del costume che dopo la macabra “moda alla ghigliottina” di fine Settecento – le dame aristocratiche con un nastro di seta rossa al collo per ricordare le vittime del Terrore – bisognerà dar conto del non meno macabro revival della Polaroid brigatista, lanciato da Ezio Mauro per il quarantennale di Repubblica. In verità lui li chiama “selfie dei lettori con il primo numero”, ma per chiunque guardi la galleria sul sito di Rep. l’evocazione è inequivocabile, tanto più che il titolo di apertura del 14 gennaio 1976 era “L’incarico a Moro”. Le famiglie dei lettori possono rassicurarsi: sono tutti vivi e in salute. Confesso, volevo unirmi al carnevale, avevo pure ripescato in soffitta quel numero 1 che per centocinquanta lire mio padre comprò. Ma poi ho pensato che non ne avevo il diritto, perché l’essenza di Repubblica – lo ha ribadito Mauro alla grande festa all’Auditorium di Roma – è lo spirito di club, e io a quel club (un po’ per via di Groucho Marx, un po’ perché all’epoca avevo due mesi) non mi sento di appartenere granché. Quindi ho fatto qualcosa di meglio, ho letto il primo numero da cima a fondo, dalla pubblicità della Sanyo in alto a pagina 1 a quella dei mangimi Mignini in basso a pagina 24, se non altro in cerca di indizi, di premonizioni, di segnali che potessero spiegare la mia triste inappartenenza.
A pagina 6, taglio basso, rubrica delle lettere, un lettore di spaventosa chiaroveggenza rispondeva con quarant’anni di anticipo all’invito di Ezio Mauro a farsi l’autoscatto nel cubicolo di via Montalcini: “Perché ci proponete di essere un club? No grazie, mi ci vorrebbe qualcosa di più, in comune, del possesso di una copia della Costituzione e della riproduzione della prima pagina del primo numero”. E allora l’ho cercato questo qualcosa di più, e ahimè l’ho trovato appena sopra, con un brivido di premonizione, in coda a un commento di Andrea Barbato: “La questione morale si chiuderà soltanto quando si apriranno per alcuni le porte dei tribunali”. Ecco, non dico che mi sentirei più a mio agio sfoggiando un vezzoso paio di manette in un party di notabili socialisti decaduti, magari lanciando monetine di cioccolato sull’anfitrione, ma insomma.
Meno male che c’era la cultura, e dopo la cultura gli spettacoli. Il caso vuole che alla vigilia del quarantennale Michele Serra abbia scritto sull’Amaca che in questo campo le cose sono peggiorate, perché nel 1984 la Festa dell’Unità invitava Carmelo Bene a recitare Dino Campana, mentre oggi “Berlusconi e la piccola borghesia che odia la cultura hanno stravinto. E la sinistra, per il terrore di essere snob, ha tradito il suo popolo”. Caspita. Credo che sia lo stesso Serra che tre giorni prima si definiva un pennivendolo pop e inneggiava a Checco Zalone, ma i suoi sono sintomi di una schizofrenia più generale. D’altro canto la piccola borghesia non odia la cultura, al contrario, la insegue come segno di distinzione, miraggio di ascesa, sigillo di appartenenza a un club; e non per caso Alfonso Berardinelli, negli stessi anni in cui il Pci portava Campana verso il popolo, salutava l’avvento di una “nuova piccola borghesia” – quella che poi si sarebbe autoincensata come ceto medio riflessivo – il cui tratto distintivo era una copia di Repubblica sotto il braccio.
[**Video_box_2**]Ma questi sono discorsi astratti, torniamo piuttosto a quel numero del 1976, e torniamoci con lo spirito da simpatica canaglia con cui Piergiorgio Bellocchio, su Diario, setacciava le pagine culturali di Rep. in cerca di strafalcioni. Solo che qui non si tratta di trovare comuni refusi, bensì sintomi clinici, lapsus freudiani, spie che illuminino la schizogenesi di Serra e dei suoi, i cortocircuiti dello spirito di club tra terrore di essere snob e desiderio di essere pop, le contorsioni del demone della distinzione a contatto bruciante con i diversi strati della cultura e dell’incultura… Eureka! A pagina 15, spettacoli, un trafiletto illustrava la programmazione delle sale d’essai milanesi. Sapete cosa davano al Rubino? “Profondo rosso” di Antonioni.