Nemesi a Repubblica
Da Mauro a Calabresi, l’avventura continua”, diceva il titolo del videoresoconto datato 15 gennaio 2016, giorno della prima riunione di redazione dai luoghi del film “Repubblica-atto terzo”, dopo “Repubblica-il Fondatore” (atto primo) e “Repubblica-il Direttore Storico” (atto secondo). E quel titolo era un wishful thinking gattopardesco – che tutto continui com’è anche se tutto cambia – ma al tempo stesso un tentativo di buttare il cuore oltre il passaggio dalla “teocrazia” alla “democrazia” (copyright Ezio Mauro, direttore uscente, in risposta all’annuncio di Mario Calabresi, direttore entrante, di volersi lanciare senza indugio nella nuova epoca della “Normalità”, dopo il primo e il secondo Ventennio: quello del Fondatore Eugenio Scalfari e quello di Mauro medesimo, direttore unico dopo il Fondatore). E si capiva che non la Rivoluzione quanto la Nemesi s’era affacciata quella mattina a Rep., giornale che con costanza, a opera del Direttore uscente in un senso (antiberlusconismo militante) e del Fondatore nell’altro (antirenzismo moderato), aveva incarnato fino a oggi il “niet” alla personalizzazione dell’Uomo solo al comando.
Ma in politica, ché in redazione è tutta un’altra cosa, “è il direttore che deve fare il direttore sennò è un casino”, ha detto lo stesso Calabresi – che però, al momento del passaggio delle consegne, di fronte a un Mauro un po’ incredulo e un po’ malinconicamente ironico, e sotto lo sguardo intensissimo di Roberto Saviano, inaugurava la giornata numero uno del nuovo corso con un inno antipersonalizzazione tout court (redazionale, ma probabilmente pure politica: doppia nemesi, questa, per il direttore uscente Mauro, cui già era toccato in sorte di sentirsi dare di “fan del Renzi erede Berlusconi” dai lettori antirenziani del Fondatore). E così, nello spazio di un mattino, a Repubblica, ci si acconciava a passare al recupero della “responsabilità diffusa” (dialogo tra il centro e la periferia redazionale, comunicazione incessante tra capi dei settori), con il neodirettore Calabresi che illustrava i termini della sfida, da avviarsi intanto con l’implementazione dei corpi intermedi in Largo Fochetti.
[**Video_box_2**]E certo, formalmente, c’era continuità di liturgia – “ci hanno presi in giro per la stretta di mano” del mattino, diceva sorridendo Mauro, nel commiato, riferendosi alla sua abitudine di salutare ogni giorno il caporedattore centrale alla maniera del direttore d’orchestra col primo violino, e preparando la strada a un Calabresi comunque pronto a stringerne anche cinque o dieci, di mani, una per ogni caporedattore. E c’era pure continuità di sentimento: “Mettere al centro il lavoro… le idee di fondo non sono cambiate”, diceva Calabresi nel ringraziare il maestro e mentore Ezio, colui che l’aveva messo a fare il caporedattore centrale a un’età che per l’Italia è da enfant prodige (32 anni). E però la “continuità” evocata nulla poteva: nella stanzetta delle riunioni di Rep., dopo quell’“io sono Normale”, si consumava il piccolo dramma dell’addio a un mondo e un modo di essere. E al Direttore uscente non restava appunto che autonominarsi, con un sorriso, “teocrate”. Ma chissà se a quel punto in cuor suo si commuoveva, ripensando ai giorni in cui non c’era bisogno di dirselo da solo, “teocrate”, ché simili appellativi gli venivano affettuosamente affibbiati dall’amica Lucia Annunziata, direttore dell’Huffington Post e memoria storica dei giorni in cui Ezio poteva ben dirsi “uomo solo al comando” (all’interno) ma anche nemico dell’“uomo solo al comando” (all’esterno).