“L'occidente cancella la propria identità per fare pace con l'oriente”. Non è cronaca, ma un romanzo di 110 anni fa
Se il deal con l’Iran e il generalizzato entusiasmo per l’era di pace che si squaderna vi puzzano perché vi ricordano qualcosa, probabilmente qualche anno fa avrete letto “Obama. L’irresistibile ascesa di un’illusione” (Rubbettino) in cui Mattia Ferraresi e Martino Cervo smascheravano un presidente deciso a bandire a ogni costo il male dal mondo. Al riguardo ripescavano un romanzo vecchio cent’anni che raccontava il tentativo americano di stabilire una pace definitiva estranea al mondo cristiano, ovvero di riconciliare il mondo sotto un’autorità diversa da quella divina: “Il padrone del mondo” di Robert Hugh Benson, scritto in Inghilterra nel 1907 e importato da Vallecchi subito dopo la Prima Guerra mondiale. Pur di nicchia, in Italia ha goduto di maggior fortuna che in patria ed è uscito presso editori disparati, ultimo dei quali Fazi, nonché come allegato al Corriere della Sera dopo che Papa Francesco lo aveva indicato fra i propri romanzi preferiti consigliandolo a chi volesse comprendere “il dramma della colonizzazione ideologica”.
Il guaio è che il romanzo è ambientato proprio ai nostri giorni. Fa quindi un certo effetto rileggere oggi l’annuncio “Niente guerra, pace; stabilita fratellanza universale” nel momento di svolta della trama, quando l’America scongiura l’imminente conflitto con l’Oriente decidendo di sacrificare l’identità religiosa dell’Occidente. Benson è felice nelle previsioni; con dieci anni d’anticipo racconta che nel 1917 iniziò il comunismo, presagisce un Parlamento europeo che si pone come istituzione anticattolica, indovina che l’erosione delle radici cristiane sarebbe partita dalla Francia e dà per scontato che i cristiani verranno perseguitati e martirizzati. Descrive perfino Roma sporca e abbandonata a sé stessa ma questo è il meno, perché azzeccare gli eventi può essere fortuna mentre capire già un secolo fa la proterva strada imboccata dal nostro mondo è indubbio talento. E dunque: sotto la minaccia di un Oriente dilaniato da attentati ma pronto a invadere l’Europa, i progressisti si convincono che l’unica speranza sia cooperare col nemico e che eliminare le religioni sia la via per la pace, quindi impongono un credo civile che richiede soltanto un’adesione affettiva e confina la religione nella sfera individuale. Benson lo definisce un “panteismo quietistico” il cui scopo è placare la sete di spiritualità blaterando di “essenza” e “spirito del mondo” senza richiedere fede attiva e sociale. Così l’uomo si sostituisce a Dio, il politico al sacerdote e lo scienziato al profeta.
[**Video_box_2**]“La religione dell’umanità”, scrive Benson, “poteva essere vera solo se si negava metà della natura dell’uomo, delle sue aspirazioni e del suo dolore”. Il credo civile infatti non è fautore dell’uomo ma di una sua idea astratta, scevra di principii soprannaturali e limitata alla parte migliore di noi, ossia ciò che diventeremo o ciò che dovremmo essere. Di conseguenza l’eutanasia, specie volontaria, è accettata con serenità e compostezza quando non incoraggiata. Benson parla al senso di sconfitta dei cattolici di oggi (“Stiamo perdendo, continuiamo a perdere da più di cinquant’anni”) o almeno di quelli incapaci di accettare che la riconciliazione fra Oriente e Occidente sia più importante della riconciliazione delle anime con Dio. Il punto chiave infatti è la questione se sia possibile la pace fuori di Cristo e se il cristianesimo debba per forza essere pacifico. Siamo portati a chiederci: se la violenza è in contraddizione con ogni religione, come ha detto il Papa in sinagoga, allora la nostra religione viene davvero avvantaggiata dal rifiuto unilaterale di servirsi della violenza? E’ un sottile crinale che Benson percorre temerariamente con cent’anni d’anticipo mostrando le implicazioni panteistiche, scientiste e soprattutto individualistiche della pretesa laica di una pace universale, fino a che arriva la fine del mondo ovvero il giorno in cui si comprende che non è più tempo di pensare a sé stessi ma forse è troppo tardi.