La religione disintermediata di Renzi alla prova Family Day
L’aneddotica funziona poco per spiegare gli strati profondi del renzismo. Quello cattolico, ad esempio. Che nel 2007 l’allora politico di Firenze fosse al Family Day – come gli è stato ora polemicamente rimproverato – con dichiarazioni sul tipo “non c’è bisogno di essere cattolici per difendere la famiglia”, significa poco: nel 2007, non era premier. Aneddoti sono i consueti riferimenti allo scoutismo (ora arricchiti dalla scoperta del suo capo scout d’allora, il senatore pd Roberto Cociancich, molto attivo sulla trincea Cirinnà). Dicono poco anche il Pantheon in cui è conservato religiosamente Giorgio La Pira, o le citazioni di Chesteston. Più significative, alcune vecchie interviste: “Sono praticante, vado a messa la domenica, ma come sindaco rispetto la laicità. Ho incontrato Wojtyla quando ero scout e gli ho baciato l’anello, invece a Ratzinger da sindaco ho stretto la mano”. A pochi giorni da un nuovo Family Day che sarà la prima manifestazione pubblica contro il suo Pd, con il capo della Cei che boccia il ddl Cirinnà e la fronda cattodem nel partito, Matteo Renzi si trova per la prima volta davanti al problema storico di ogni politico cattolico italiano: il rapporto con la chiesa. Fin qui lo ha sempre affrontato secondo un principio di disintermediazione: “Non rispondo al mio vescovo o alla gerarchia religiosa, ma ai cittadini che mi hanno eletto”. Un criterio di piena separatezza tra i due ambiti, tipico anche del suo inner circle e che lo apparenta, come un gemell,o al ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, disinvolta prima e più di lui a dichiarare, mesi fa: “Sono cattolica, ma sulle unioni civili ho una posizione diversa rispetto a quella ufficiale della chiesa. Io sarei favorevole al matrimoni”. E anche: “La fede ispira anche il mio impegno politico, ma le scelte devono essere fatte rispettando le idee di tutti”. Un rapporto non conflittuale tra il proprio credo personale e l’attività politica assai diverso da quello tradizionale, persino dei meno clericali cattolici democratici.
Ciò che forse fin qui Renzi ha trascurato – non trascurato: semplicemente pensa diversamente, più affine al modo in cui un suo idolo pure molto religioso, Tony Blair, trattava la fede e le questioni etiche quando era al governo – è che in un paese come l’Italia l’elettorato cattolico è un corpo ancora piuttosto organico, e c’è una gerarchia non silente. Come ricordava ieri lo storico Agostino Giovagnoli su Repubblica, questo rapporto è stato mediato per decenni da un partito confessionale a trazione non confessionale. Poi è stato teleguidato dalla supplenza dei vescovi, con qualche rigurgito neocentrista. Ma in qualche modo anche la lettura di Giovagnoli va storicizzata. Il renzismo ha prefigurato, anche su questo, un superamento del vecchio rapporto. Renzi ha chiuso un occhio sulla gestione di una legge da cui non temeva scossoni, ha sottovalutato il fatto che all’interno del suo stesso Pd la componente di matrice cattolica esiste.
[**Video_box_2**]Prova ne sia che, sul ddl Cirinnà, nel Pd si è trovato contro anche una parte dei cattolici dem che nel 2007 sostenne i Dico. Ma la sua non è neppure una riedizione del cattolicesimo adulto. E la domanda è se, in futuro, pagherà lo scotto quest’idea post-moderna, pop, di un cattolicesimo disintermediato. Non è detto. Come ragiona col Foglio Stefano Ceccanti, costituzionalista di area cattolico-democratica, la chiave d’interpretazione è differente. Generazionale: “Né lui né il suo gruppo ha più la visione di un rapporto con una constituency identitaria, ma solo con una costituency programmatica. Cosa facciano l’associazionismo, o la Cei, non è decisivo”. Renzi sa bene che, nelle generazione più giovani di lui, “schierarsi per delle unioni civili non fa perdere voti, nemmeno nell’elettorato cattolico. Sa di intrepretare uno spirito culturale acquisito”. Soprattutto sa che il voto che ipoteticamente perderebbe oggi non ha sbocchi alternativi per il dopo. E le unioni civili, tra due anni, saranno acqua passata.