Ma chi farebbe quattro figli per avere “una società meno depressa”?
Il calo demografico “non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi?”. Se è giunto a chiederselo persino Gustavo Zagrebelsky, nel suo recente “Senza adulti”, la risposta deve per forza essere affermativa. Anche un banchiere umanista come Ettore Gotti Tedeschi, intervistato dal Foglio, riprendendo alcune sue tipiche tesi in tema di demografia, ha sottolineato che le implicazioni del problema non soltanto socio-economiche, ma culturali. Di “suicidio demografico” europeo – rimediabile ormai solo attraverso l’immigrazione – aveva parlato in una sede ufficiale anche il vicepresidente della Bce, Vítor Constâncio. Con ciò chiudendo idealmente il circolo vizioso tra crisi demografica, economia, immigrazione e collasso identitario occidentale. Tutto evidente, tutto si tiene. Se non che, rigirandosi tra le mani i dati e le idee, a un certo punto ci si può domandare: sarà vero? Per esempio. Gotti Tedeschi argomenta che “al tasso di crescita del 1975 ci sarebbero 7-8 milioni di italiani in più”, e invece con quelli attuali siamo costretti a compensare “le perdite con 7-8 milioni di immigrati”. Ora, io c’ero nel 1975, iniziavo un liceo affollato, da bravo figlio del boom: non tornerei indietro manco se mi pagassero l’Erasmus. Ma tolta l’aneddotica generazionale (che però è una componente non trascurabile della psicologia sociale, chiedete ai babyboomer perché hanno fatto meno figli) manca la controprova: anche al tasso demografico del 1975, quei 7-8 milioni di invasori premerebbero alle frontiere lo stesso. La nostra crisi demografica in questo non c’entra. Certo, resta il tema della “diluizione rapidissima di culture”, e da Bernard Lewis a Sua Beatitudine Boutros Raï l’opinione che l’islam prenderà il sopravvento per via demografica è diffusa. Quel che non tiene è la saldatura tra allarme e azione. Qualcuno farà più figli solo perché vuole evitare una “diluizione di culture”? Nessuno, negli ultimi vent’anni, l’ha fatto. C’è qualcuno in età fertile, diciamo entro il mitico orologio biologico dei quarant’anni per le primipare e del primo Suv in garage per il paparino, che farebbe quattro figli per arginare l’islam? A Falconara Marittima? A Colonia?
Il suicidio demografico è uno specchio fedele delle nostra società. Ma non è la campana dell’allarme né il volano per riattivare la crescita. L’unico reale problema che produce è l’insostenibilità dei sistemi di welfare, ma per quelli della generazione dei babyboomer che hanno smesso di riprodursi. I diciottenni di oggi troveranno altre noci per far provvista nel bosco. Al di là di questo, l’allarme è ingiustificato.
[**Video_box_2**]Nessuno fa figli per assicurarsi il welfare. Il tempo in cui la prole era ricchezza è finito. Oggi un figlio è un costo. Secondo i dati di Federconsumatori del 2014, dal primo pannolino alla laurea siamo sui 170 mila euro. Secondo le associazioni che calcolano gli assegni di mantenimento per i divorzi, si sale a 230 mila. C’è di che sistemarsi un rustico in Val di Mello, o in alta Sabina, dopo aver chiuso una vantaggiosa polizza vita. Vale la pena un figlio, o è uno spreco di ricchezza spalmata su un futuro che non interessa? Secondo uno studio della Voce.info, per una donna allontanare di un anno l’età della prima nascita aumenta la probabilità di partecipare al mercato del lavoro dell’1,2 per cento. Fare figli non è un investimento culturale né civile, né economico, non c’è ritorno. Se una grande maggioranza degli individui nati in occidente dopo il 1970 non fa figli, un motivo ci deve essere: è che funziona meglio. O sono tutti stupidi? I figli “non sono un diritto”, è la cosa più azzeccata detta lunedì dal cardinal Bagnasco alla Cei. Per contro, i figli non aiutano a vivere, come i sogni di Marzullo. Non c’è un motivo pratico per farli o, se esiste, bisogna trovarlo altrove che in un ipotetico doverismo della filiazione. La crisi demografica non è la causa della nostra infelicità, né l’arma di un possibile riscatto. Per Papa Francesco “una società che non ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un peso, un rischio, è una società depressa”. Ma chi farebbe un figlio per avere una società meno depressa?