Un afghano davanti ai resti di una delle due statue di Budda a Bamiyan, distrutte nel 2001 dai talebani

Indagine sull'arte sottomessa

Francesco Stocchi
Non solo le statue dei Musei capitolini. Dal Kaba’a di Schneider fino alla moschea di Büchel. Tutte le volte che abbiamo messo le mutande alla nostra creatività per “non offendere” l’islam. C’è chi crede che l’arte debba insegnare, indicare condotte di comportamento, dispensare consigli oppure offrire soluzioni.

Se la raffigurazione di Maometto è questione oggetto di controversie (non c’è una vera proibizione di crearne le immagini, solo qualche Hadíth), di una cosa possiamo essere veramente certi: a giudicare dagli artisti contemporanei, deputati a creare le immagini del nostro tempo, Maometto non esiste. Non facciamo certo parte di chi crede che l’arte dovrebbe insegnare, indicare condotte di comportamento, dispensare consigli od offrire soluzioni. Non crediamo neanche nel coinvolgimento diretto dell’arte in questioni sociali, nella cronaca degli eventi, o come cassa di risonanza moralizzante delle notizie che occupano i telegiornali. Crediamo, e speriamo, in una funzione di più utile, in un uso meno dozzinale della creazione, sicuri che l’arte debba crescere nella società e non rivolgersi direttamente agli eventi che questa genera. Perché se così non fosse, l’arte arriverebbe sempre un attimo dopo, diventerebbe banale cronaca degli eventi (vedi, tra i tanti, Ai Wei Wei), e seguirebbe le regole e il loro cammino già battuto, invece di cercare di cambiarle, le regole, offrendo la possibilità di percorrere un’altra via. Un punto di vista diverso. Ginnastica mentale e non spirito buonista volto alla conclamazione dell’ovvio, rispetto al quale sarebbe più incisiva la beneficenza o del sano volontariato. Quindi, il pensiero di un artista interessato a questioni mediorientali, perde di efficacia se questi si occupa degli eventi dei terroristi dell’Isis. Per questo ci sono giornalisti, fotoreporter e poi, a modo loro, gli aderenti allo Stato islamico, che già hanno creato un linguaggio visivo, proponendo un immaginario inedito, ibrido di secolarizzazione, tecnica fotografica occidentale, grafica e montaggio cinematografici e ambientazione da videogames. Il problema è che l’arte contemporanea di tutto si occupa, indistintamente, a eccezion fatta dell’islam. Abbiamo a disposizione commenti, mascherati da denuncie sociali, rispetto alle questioni più varie, dallo sfruttamento dei lavoratori nelle fabbriche cinesi alla questione degli omosessuali in Angola, la guerra civile in Sierra Leone, l’educazione infantile in Colombia, in Etiopia, le tensioni sociali nella Russia postsovietica, eccetera. L’ultima edizione della Biennale di Venezia è stata più che generosa nella presentazione di opere “sensibili ai problemi sociali”, utili forse per pulire la coscienza di qualche acquirente. Il medio oriente sembra sfuggire dal radar degli artisti, eccezion fatta della questione palestinese e a rappresentazioni eroiche della primavera araba (ne stiamo vedendo gli effetti).

 

Il Papa è stato certamente colpito da un meteorite, si vedono di Budda dipinti con la cenere o costruiti con blocchi di carta, ma Maometto è non pervenuto. Paura, da un lato, non tanto della propria incolumità, bensì del non aderire al politicamente corretto, principale freno alla libertà di pensiero. Dall’altra, una estrema quanto assurda precauzione post coloniale. Sarà un caso se una delle poche voci artistiche che si interessano alla questione è il collettivo anonimo Slavs and Tatars? Celando la loro identità, si occupano della zona euroasiatica con mostre, pubblicazioni e “conferenze-performative”, come loro stessi le definiscono. Per Slavs and Tatars grattando la superficie della cultura orientale c’è tanto occidente, e viceversa. Non certo presupposti dalle sconvolgenti rivelazioni, il gruppo ha comunque il merito di interessarsi di questioni dalla lettura non unilaterale o moralistica. Del profeta comunque, anche qui, nessuna traccia.

 

Nel 2005 accadde qualcosa che divise il mondo dell’arte, e scosse qualche ben informato: l’artista tedesco Gregor Schneider (Leone d’Oro alla Biennale nel 2001) propose il progetto Cube che consisteva nell’erigere nel mezzo di piazza San Marco un gigantesco cubo nero, tale quale la Kaba’a, solo poco più piccolo. Il contesto era quello della 51° Biennale di Venezia, Biennale fantasma di cui nessuno si ricorda, diretta dal duo rosa Rosa Martinez e Marìa de Corral, note per sovrapporre didascalicamente arte e politica (l’arte è già politica di per sé, inutile essere così tautologici), il tutto condito da un femminismo senza compromessi ma soprattutto senza effetti. Quella Biennale con centinaia di opere esposte è stata cancellata dalla memoria collettiva, ciò che il circo dell’arte ricorda è invece un’opera che nessuno ha visto perché mai realizzata, ma che ha fatto tanto discutere: il cubo nero alto 14 metri, appunto. Se la Kaba’a, secondo tradizione, fu eretta da Adamo, ricostruita da Abramo e ri-ricostruita da Maometto, Gregor voleva essere quello che l’avrebbe clonata ed esportata in terra occidentale. La legge islamica non impedisce repliche della Kaba’a, ma, di fatto, non era mai avvenuto prima. Gregor Schneider, non certo un tipo tranquillo, solito esplorare il crinale tra l’etica e il buon gusto (ha filmato una persona morente sul letto di ospedale, da poco ha acquistato la casa natale di Joseph Goebbels, smontata pezzo per pezzo, attendiamo di sapere quando, come e dove la ricostruirà), vide il suo progetto rifiutato dalla Biennale per “motivi di sicurezza e per timore di offendere la sensibilità della comunità musulmana”. Riuscì poi a realizzarla nella più periferica Amburgo, non nel centro di una piazza, non di fronte a una cattedrale ma presso la Kunsthalle di una città dalla cospicua presenza musulmana. Il tutto si ridimensionò e l’opera rifiutata ebbe più eco di quella effettivamente realizzata. L’operazione veneziana mi sembrò uno di quegli scandali orchestrati, figlio di un protagonismo dalla fattezza vittimista, nascosto dietro lo spettro dell’abusato termine “censura”, ma poco importa. La debolezza – e questo invece importa eccome – era negli argomenti portati dall’artista, che insisteva nell’affermare che la sua opera era un omaggio all’idea di casa e al Quadrato nero di Kazimir Maleviã, mistico suprematista russo che dalla periferia di Mosca rivoluzionò la storia dell’arte dipingendo un quadrato nero su sfondo bianco. Era il 1915. Quella di Schneider fu un’occasione perduta.

 

Altro esempio, non a caso, sempre Venezia. Christoph Büchel si occupa prevalentemente del rapporto tra occidente e oriente. Lo scorso maggio, l’artista ha ricreato in una chiesa sconsacrata del X secolo una moschea. Se ne è parlato tanto. Büchel è abituato a costruire cortocircuiti, usando come medium preferito non la pittura a olio, la creta, il legno o il marmo, bensì le persone. L’artista mette in atto le condizioni necessarie, poi è la gente a fare il resto. Culto dell’arte o luogo di culto? Si va per pregare, o si va per vedere una mostra? Chi è fuori luogo, i credenti che, quasi senza saperlo, o volendolo ignorare, entrano in un’opera d’arte e si trovano bella e buona una moschea sotto casa grazie al padiglione d’arte islandese e per mano di un artista svizzero (gioie del post-modernismo), o i professionisti dell’arte che nei giorni di apertura della Biennale si recano all’ennesima inaugurazione per calcare a piedi nudi il tappeto di una moschea? Entrambi. Nessuno è al suo posto. Spontaneità apparente, disagio reale, tutti però a interpretare il proprio ruolo, come in un reality. Sembra Santa Sofia, ma tutto è così realisticamente posticcio, incluso il distributore di lattine “Mecca Cola”. Sensazione di trovarsi in due luoghi allo stesso momento, tutti pensano di essere lì per un motivo e ognuno, in fondo, trovava ragioni per avere torto. Se dalla fine degli anni Sessanta iniziò a imperare la pittura iperrealista, così dettagliata, fotografica e verista tanto da oltrepassare il reale, Büchel crea ambienti iperrealistici funzionali, abitati da sculture viventi che non sanno più se recitano una parte o si convincono di fare sul serio. Ciò che legittima il tutto sono le reazioni della gente, della curia, del comune, perfino della Biennale, anche se con garbo. Servizi segreti, polizia municipale, anziani del quartiere, critici, l’ambasciatrice del Pakistan, la Digos, il rappresentante della comunità musulmana in Islanda, nessuno mancava per celebrare (inconsapevolmente) con la propria presenza la riuscita dell’opera di Büchel. A una Biennale prevedibile, poco ispirata e molto pessimista, si contrappone un innesto dell’arte nel reale, fino a non riuscire più a distinguere l’una e l’altro. Büchel costruisce dei cerchi di viva realtà, circoscritti geograficamente e temporalmente.

 

[**Video_box_2**]Se la Kaba’a non fu fatta costruire per “non offendere la sensibilità della comunità musulmana”, la moschea di Büchel è stata chiusa per “motivi di sicurezza”.

 

A una ciclica, triste realtà rispetto ai rapporti occidente e oriente, censura, abuso dell’arte, confusione mentale e atteggiamenti paradossali, abbiamo assistito la settimana scorsa in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rouhani. La questione si è gonfiata a dismisura, non tanto per il fatto in sé, ma per il modo rozzo e incompetente in cui è stata affrontata. Gli organi decisionali, chiamiamolo pure il potere, termine usato senz’ombra d’iperbole, hanno sempre voluto sorvegliare e limitare, per ragioni tutte loro. Da sempre c’è  qualcuno che pensa di intervenire sulla cultura, anche quella di altissimi livelli, e viviamo a contatto con certe censure divenute le tempo semplici “correzioni”.

 

Nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento, venne decisa la rimozione dei nudi del Giudizio Universale. Michelangelo era morto da pochi mesi. Fu Daniele da Volterra, artista manierista, collaboratore di Michelangelo, a coprire la vergogna con le famose “braghe”. Non si è veramente passati da Roma se non se ne esce con un soprannome, così da allora l’artista fu noto come “il Braghettone”, sebbene gli “interventi correttivi” continuarono negli anni a venire a opera di altri. La maggior parte delle aggiunte fu dipinta a tempera sopra l’affresco originale, che quindi si è conservato al di sotto delle fini ridipinture. Il potere, non essendo creativo ha paura di chi crea, esercita quindi la sua influenza per convenienza propria. Nulla di nuovo.

 

Non mi sorprende, quindi, ciò è avvenuto: tutti i paesi esercitano il loro controllo sull’arte (puntuali però a riempirsi la bocca quando si parla di incondizionata libertà artistica), anche se sarebbe bene chiamare le cose con il proprio nome. Quando si riceve qualcuno che ventila un’offerta e per soddisfarlo si opera in maniera che non è all’altezza dei propri costumi e della propria dignità, non si chiama ospitalità, ma prostituzione. Tutti lo fanno, ma noi, in Italia, lo facciamo male barricando la supposta impudicizia dentro scatoloni di compensato, stile cabina elettorale. Se proprio la questione delle pudenda (dal nostro latino “ciò per cui si deve provare vergogna”) avrebbe potuto offendere la sensibilità dell’ospite, perché non spostarle, quelle statue? O forse invitare il celebre artista Christo, che delle sculture avrebbe fatto fagotto, impacchettandole, magari inducendo Rouhani a scambiarle per burqa. Questa sì, che sarebbe stata accoglienza.

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