La Shoah spiegata con la cultura pop. Buon libro contro il male della banalità
Ogni volta che si parla di banalità del male (ed è capitato spesso, in questi giorni, per via del 27 gennaio e del nuovo film sul processo Eichmann) mi torna in mente una pagina dell’autobiografia di Raul Hilberg, “The Politics of Memory”. Il bersaglio era Hannah Arendt e la sua immagine del tenente colonnello delle SS come un burocrate ottuso e disciplinato. Hilberg ricostruiva per sommi capi la stupefacente carriera di Eichmann, l’astuzia e la diplomazia fuori dal comune che dovette impiegare per portare a termine le sue atroci imprese, e concludeva grosso modo così: vedo il male, altroché, ma la banalità proprio non la vedo.
Mi torna in mente questa pagina non tanto per la questione della banalità del male ma per quella, assai meno importante, del male della banalità. Tutte le volte che la cultura pop – musica, cinema, tv, fumetti, pubblicità, social network – si accosta alla Shoah o si serve dei suoi simboli, l’accusa di “banalizzazione” è in agguato. Non so chi sia stato il primo a usarla. Di certo il più influente è stato Elie Wiesel nella sua requisitoria sul New York Times contro la miniserie “Holocaust” nel 1978, che s’intitolava appunto “Trivializing the Holocaust”. Poi la parola è diventata una specie di formula liturgica un po’ ovunque e soprattutto in Francia, ossia nella patria di quel Flaubert che avrebbe potuto metterla in appendice al dizionario dei luoghi comuni: “Film sulla Shoah: se piacciono al pubblico, dire che banalizzano l’indicibile”.
Bisogna dunque salutare “Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico” (il melangolo), a cura di Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, come uno dei primi tentativi – ma ce ne sono stati altri, negli ultimi anni – di prendere sul serio i richiami al genocidio nella cultura pop e di recuperare il ritardo spaventoso che la riflessione italiana sul tema, non meno della francese, ha accumulato rispetto a quel che si è già fatto in America e perfino in Germania. Certo, sulle pagine di “Pop Shoah?” – e il punto interrogativo già tradisce una timidezza, un’esitazione – lo spettro di quella parola, banalizzazione, aleggia un po’ troppo; e di vero pop, a dirla tutta, potrebbe essercene di più. Ma alcuni dei saggi – quello di Damiano Garofalo sulle migrazioni di un’icona, ossia la bambina con il cappotto rosso di “Schindler’s List”, o quello di Claudio Gaetani sulle locandine dei film, per non citarne che un paio – si scrollano di dosso qualche idea ricevuta un po’ stantia e mettono in gioco materiali di solito negletti, serie tv come “Seinfeld” o “Pretty Little Liars”, film come “Galline in fuga” (dove il lager è un pollaio) o “X-Men”, tratto da un fumetto. Rispetto a queste e ad altre rivisitazioni pop della Shoah, la retorica della banalizzazione vale poco più di una presa di distanze moralistica, di un interdetto sacerdotale, di un guanto sterilizzato che il critico indossa per non contaminarsi.
[**Video_box_2**]Quanto si guadagnerebbe a sfilarselo! Poche cose sono labirintiche e profonde come la Pop Shoah. Penso a Magneto, il mutante degli “X-Men” che acquisisce i suoi superpoteri ad Auschwitz perché così volle un fumettista ebreo londinese dopo aver passato qualche mese in un kibbutz tra i sopravvissuti; penso all’incredibile cocktail culturale dei B-Movie italiani di fine anni Settanta che mescolavano Mann, Sade e le SS; penso a quel ragazzo israeliano convinto di essere la reincarnazione di un deportato, creatore di un videogame per sparare sui nazisti. Penso a queste e a mille altre cose e mi vien voglia di parafrasare Hilberg: vedo il kitsch, l’approssimazione storica, il gusto grossolano; ma la banalità proprio non la vedo.