Alla Berlinale dell'impegno bastano i Coen per tornare al bel cinema che fu
Arriverà un bastimento carico di film sui migranti. Li abbiamo contati nel programma delle varie sezioni e lo ribadisce l’inamovibile direttore Dieter Kosslick, nel suo discorso d’apertura. Prima della mestizia ce la siamo spassata con “Ave, Cesare!” di Ethan e Joel Coen, ben collocato in apertura di Berlinale. Un po’ di star servono, sul tappeto rosso, anche nel festival dell’impegno e degli spettatori che pazientano in coda per ore. Quindi Meryl Streep presiede la giuria (dichiarandosi in conferenza stampa “dilettante quanto a criteri di giudizio, ma ho due voti mentre gli altri ne hanno uno”) e George Clooney porta in dote il più perfetto dei suoi idioti cinematografici.
Lavora come attore, nella Hollywood anni Cinquanta che fa da sfondo alla vicenda. Sandali, gonnellino da antico romano, tutto intorno una scenografia da “Dolci vizi al Foro”: il musical con Zero Mostel (e Buster Keaton nel suo ultimo ruolo) diretto nel 1966 da Richard Lester adattando il successo teatrale di Stephen Sondheim (lo stesso di “Sweeney Todd”, con Johnny Depp canterino agli ordini di Tim Burton). Una comparsa con peplo regge un grappolone d’uva (fa subito orgia, con gli acini passati di bocca in bocca). Un’altra sdraiata fa ogni tanto “plin plon” con la lira.
“Ave, Cesare!” è il titolo del film che stanno girando – sottotitolo “A Tale of the Christ”, lo stesso di “Ben Hur”, qui incorniciato da una corona di spine. Il tipo di pellicola che una major hollywoodiana metteva in cantiere per dimostrare che non badava solo agli incassi e al divertimento popolare. Come in “Ben Hur”, Cristo compare solo di spalle – qui con i capelli biondicci – e Clooney lo guarda con la mascella che gli cade. Non è l’unica sua conversione nel film, la prima era avvenuta a opera di indottrinatori che rapiscono le star e firmano le richieste di riscatto con la sigla “The Future”: non sapere chi sono aiuta a godere il film, purtroppo il segreto non resterà tale a lungo.
Le scene sono un omaggio al cinema che fu, in diretta discendenza da “Barton Fink” (solo un po’ più allegre: anche i Coen devono aver capito, con la maturità, che “produttore” e “industria” non sono brutte parole). Oltre al peplum, girano un musicarello acquatico con Scarlett Johansson vestita da Esther Williams (quando si strizzava nelle tute da sirenetta). Capitava che gli attori sotto contratto venissero prestati dalle major alla concorrenza. Un leggiadro cowboy viene quindi trasferito d’ufficio sul set di una commedia sofisticata: non riesce a pronunciare le battute, per quanti sforzi faccia, gliele devono semplificare. Gli appioppano come fidanzata un’attrice sudamericana, tale Carlotta Valdes: nome di gran lignaggio cinematografico: era la (finta) bisnonna di Madeleine, in “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock. Channing Tatum fa (splendidamente) il ballerino di tip tap, sul set di un film somigliante a “Due marinai e una ragazza” (c’erano Frank Sinatra e Gene Kelly, nell’originale).
[**Video_box_2**]Piaceri sconosciuti a chi fa iniziare la storia del cinema da Quentin Tarantino (lui non ne ha colpa, come non possiamo buttare su Carlo Emilio Gadda la reponsabilità di chi lo scopiazza usando parole in libertà e si crede uno scrittore vero). Si aggiungono però le domande-tormentone che ricorrono negli ultimi film dei fratelli Coen. C’è qualcuno lassù? Se c’è, perché lascia che certe brutte cose succedano? Ci parla e siamo noi che non lo sentiamo? Qui il “serious man” in attesa di chiarimenti è uno spicciafaccende di Hollywood. Nel mentre, fa il suo – anche sporco – lavoro nel miglior modo possibile. Il cinema certo non dà risposte, ma aiuta a passare il tempo dopo che si sono formulate le domande.