Kanye West è diventato il Donald Trump della musica. Clinton avvertita
C’è un uomo che adesso in America sta facendo perfino più rumore di Donald Trump: Kanye West. La calcolata coincidenza tra l’uscita del suo settimo album e la presentazione della nuova collezione del suo marchio di moda, Yeezy Season 3, l’ha spinto a sollevare un polverone mediatico che si è depositato dappertutto. Dentro ci trovate un sacco di narcisismo, strategie di show business, gossip, provocazioni ad arte e perfino un po’ di voci e suoni. La consolazione, magari, è che proprio attraverso personaggi di questo genere che la musica oltreoceano continua a rientrare nei grandi consumi condivisi, uscendo dalla bolla e proiettandosi con disinvoltura ben dentro il brodo mediatico. Dove, per fare un confronto nostrano, è difficile trovare una vaga traccia degli Stadio, vincitori di un’edizione sanremese strombazzata all’insegna del consenso, ma priva di un pensiero organico, se si ragiona dello stato della musica italiana.
Kanye è un rappresentante della generazione di Millenials afroamericani che stanno rivoluzionando il contributo “black” alle dinamiche artistico-culturali del XXI secolo. Non è un caso che personaggi come lui, o come Jay Z o Dr. Dre, giochino oggi su diversi tavoli della comunicazione, con la stessa naturalezza: si tratti di promuovere un disco, un marchio di cuffie, una linea di vestiti, perfino una raccolta di beneficenza, ciò che descrivono è un nuovo design del ruolo leaderistico, che soppianta la vecchia popstar, si rappresenta con un impeto meno romantico e non si vergogna a condurre parallelamente una carriera da artista e una da businessman.
Kanye West, attraverso le sue equilibristiche, sovente sconsiderate intuizioni, è questo: marcia a modo suo nel mondo della musica, facendo al tempo stesso spudorata sperimentazione e astuta archeologia soul, facendo convivere collaborazioni con Paul McCartney, con Rihanna e con Kendrick Lamar. Poi si abbandona alla bulimia mediatica, al rapimento da presenzialismo, al desiderio di esistere attraverso le opinioni degli altri. Nuota nei social, gioca con l’idea di indiscrezione, è l’autore degli scoop su se stesso. Litiga con Taylor Swift, l’ultima reginetta bionda del pop, poi ci fa la pace, salvo provocarla sessualmente subito dopo, infilandola in un verso scostumato di “Famous”, brano del suo nuovo album. Che, dopo tanti ripensamenti veri o presunti, intitola “The Life Of Pablo”, e Pablo non si sa se è Picasso, il meganarcos Escobar o, come sostiene nelle ultime ore, l’omonimo apostolo. Affitta il Madison Square Garden un pomeriggio e paga Vanessa Beecroft per progettare un’installazione dei suoi nuovi capi d’abbigliamento. Per entrare 160 dollari, in cambio dei quali si assiste alla performance dei modelli immobili e si ascolta Kanye che trasmette il suo cd dal computer. Spalti belli pieni, anche perché c’è sua moglie Kim Kardashian con le sorelle e dove ci sono loro l’America vuole sbirciare.
[**Video_box_2**]Alla fine di questa giostra volete sapere una cosa? “Pablo” è un gran bel disco, non facile da digerire ma denso di innovazione, originalità, follia. Kanye intanto è già ripartito, dice che si candida alla Presidenza, implora i fan di comprare i suoi prodotti perché ha 53 milioni di dollari di debiti, spara opinioni su tutto. Vogliamo ancora chiamarlo rapper? O vogliamo – saggiamente – connetterlo con ciò che sta combinando, con altrettanta sagacia, The Don, il candidato che per ora nessuno ha capito come fermare? Messaggio chiaro: la comunicazione è la cultura del presente, tout court. Ma non basta saperlo: bisogna studiarla, seguirne le modificazioni, entrare nel flusso, scoprirne le regole, inventarne di nuove. Adesso è così. Ora chiedetevi se gli Stadio o Hillary Clinton siano adeguati a questi scenari.