Ma quale amore, è l'interesse che dovrebbe spingerci al matrimonio

Simonetta Sciandivasci

Non sposarsi aumenta il costo della vita del 64 per cento. E siccome progredendo e raffinandoci abbiamo sbolognato i nessi di causa-effetto, in Italia ci sposiamo meno e più tardi, divorziamo assai e invecchiamo vedovi e poveri. Un'indagine della Coldiretti e una scandalosa ovvietà.

Roma. “Non mi piace: è brutta e grassa”, dice il figlio. “La moglie bella fa il marito cornuto”, risponde il padre, che gli aveva combinato il matrimonio con la primogenita di un farmacista. Ne “I Basilischi” di Lina Wertmuller c’era l’Italia meridionale degli anni Sessanta: apatica, bigotta e refrattaria al matrimonio romantico. Da quella protostoria, beati noi, la cultura è cambiata ma, ahinoi, i conti no. Un’indagine appena diffusa dalla Coldiretti rivela che sposarsi conviene: non farlo aumenta il costo della vita del 64 per cento (+45 per cento solo per mangiare, +98 la spesa per la manutenzione di appartamenti da scapoli). E siccome progredendo e raffinandoci abbiamo sbolognato i nessi di causa-effetto, in Italia ci sposiamo meno e più tardi, divorziamo assai (impennata del 70 per cento negli ultimi vent’anni) e invecchiamo vedovi (75 per cento) e poveri (7,4. al Sud 20).

 

Il fatto (o il pregiudizio) che mettere su famiglia sia un lusso, allora, convive con l’evidenza che farlo convenga (in Italia diamo sempre ragione a Giordano Bruno: gli opposti coincidono). Evidenza in cui germina ora il rischio che il matrimonio d’interesse surclassi quello d’amore. In quale tempo è stata smentita la “verità universalmente riconosciuta” di cui si doleva e si beffava Jane Austen in “Orgoglio e Pregiudizio” e cioè che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio cerchi sempre moglie? Nessuno. Sono irrintracciabili gli scapoli ricchi capaci di pronunciare il sì, ma il matrimonio non ha mai cessato di rappresentare un investimento, nemmeno quando hanno preso a contrarlo liberi individui, spinti dall’amore e convinti che per vivere bastasse far battere i propri cuori in una capanna. E non poteva essere diversamente perché – lo scriveva nel 1899 l’economista Thorstein Veblen – il matrimonio ha fondato un ordine sociale basato sulla proprietà privata. Il femminismo della differenza, d’altronde, ha evidenziato come il matrimonio (ultimamente spacciato come coessenziale all’emancipazione) fosse una costola del contrattualismo patriarcale e quindi, anche se riadattato ed emendato, sarebbe sempre rimasto un’istituzione predatrice, funzionale alla protezione di un interesse (è stato da poco ripubblicato un testo cardine di questa riflessione, “Il contratto sessuale” di Carole Pateman). Tanto Veblen quanto Pateman conducono a un libro del 2011 di Pascal Brucker, “Il matrimonio d’amore ha fallito?”, che riporta il problema alla confusione di amore con matrimonio: “Addomesticando l’uno abbiamo mitigato l'altro. Non torneremo alle unioni forzate di una volta, ma nulla ci impedisce di tornare a considerare le unioni di interesse”.

 

[**Video_box_2**]Se l’amore abbia o no a che fare col matrimonio lo decidono gli sposi, ma è necessario capire che amore e interesse possono darsi insieme e che, invece, la loro scissione manichea trancia l’essenza di entrambi. La parola “interesse” è ormai capitalistica e fatichiamo a includerla nel lessico sentimentale, forse anche per demerito di letteratura e cinema, che di “unioni per convenienza” hanno sempre offerto scorci tragici (un paio di eccezioni: il padre di J-Lo in “Prima o poi mi sposo”, vedovo di una moglie che aveva sposato per costrizione, ma della quale si era poi innamorato pazzamente e la Anna di “Anna al collo” di Cechov, che sposa un vecchio ricco per salvarsi dalla miseria, facendone la sua vittima). L’interesse non è solo un tasso: è pure uno “stare fra le cose di alcuno”, è la prima ragione dell’amore, la sua soddisfazione. E’ questo che il matrimonio esemplifica e per questo dai dati della Coldiretti non c’è da trarre allarmi, bensì un’ovvietà. Scandalosa, come sono ormai tutte le ovvietà.

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