Che cosa abbiamo imparato da Umberto Eco
“Ma in fondo, che ci vuole?”. Era il 1980, il professor Umberto Eco aveva pubblicato con strepitoso successo “Il nome della rosa”, l’accademia italiana moriva d’invidia. “Che ci vuole?”, ripetevano i colleghi. Come se per scrivere un romanzo in grado di scalare le classifiche internazionali – al pari di quel che sarebbe successo poi con il “Il Codice da Vinci” di Dan Brown: 50 milioni di copie contro 80 milioni, e un film a testa, Sean Connery contro Tom Hanks – bastasse deciderlo. E loro appunto non si abbassavano a tanto, fedeli alla serietà del loro lavoro da topi di biblioteca. Intanto rosicavano.
Ci voleva parecchio invece, tanto che neppure Umberto Eco riuscì a fare davvero il bis. I romanzi successivi risultano più indigesti, nonostante il successo di pubblico (che se lo diverti una volta poi si affeziona) e le lodi della critica (che dopo il primo successo comincia a trattarti con devoto rispetto). In caduta frenata, a partire dal “Pendolo di Foucault”, e poi in caduta libera fino a “Numero zero”, l’ultimo romanzo sul giornalismo d’inchiesta e di ricatto. Con squarci storici sul cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto, storie che una volta trovavano posto sui settimanali popolari, alla voce “rivelazioni sull’epoca fascista”.
Era sparito il magico intreccio di medioevo e feuilleton che faceva scorrere veloci le pagine di “Il nome della rosa”. Fino alla rivelazione finale sul libro perduto della “Poetica” di Aristotele, dedicato alla commedia e fatto sparire dai monaci, giacché ridere è male. Se un lettore non sapeva niente della “Poetica”, si divertiva lo stesso, essendo il medioevo carico di intrighi. Volendo, si saltavano le parti più erudite. Mica c’era bisogno di farsele indicare da apposite edizioni – come i Distillati, versione aggiornata dei romanzi condensati di Selezione del Reader’s Digest – che tagliano via le parti noiose: ognuno dovrebbe essere giudice della propria noia.
E’ sparita, con gli anni, anche l’allegria che Umberto Eco aveva messo in “Diario Minimo”, uscito nel 1963. Lì sta la “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, a quei tempi solitaria escursione di un intellettuale nella cultura di massa. Lì sta “Fatevi il vostro film d’autore”, che inchioda alle loro responsabilità Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti. Ovvero il troppo vuoto e il troppo pieno del cinema italiano: uno chiamava il carro attrezzi per svuotare le piazze, l’altro voleva i cassetti pieni di trine, anche se nessuno li avrebbe aperti mai (c’è anche un soggetto multiplo per il trio Samperi-Bellocchio-Faenza, grandioso nelle variazioni su “l’eroe si unisce sessualmente con la propria madre”). Lì sta “L’elogio di Franti”.
Da Umberto Eco abbiamo imparato a scagionare “l’infame che sorrise”, il cattivo ragazzo sfuggito alla melassa di Edmondo De Amicis in “Cuore”. Abbiamo imparato a distinguere tra “Apocalittici e integrati”, schierandoci dalla parte degli integrati (anche nella versione “non siamo l’ultima generazione al mondo dotata di intelligenza e buon senso”: tutti ne sono convinti, da secoli; tutti si sono finora sbagliati, perché dovremmo avere ragione noi?). Abbiamo imparato che si possono trovare interessanti Superman e Charlie Brown anche dopo aver studiato all’università l’estetica di Tommaso d’Aquino. Abbiamo imparato che non tutti nel Gruppo 63 erano privi di senso dell’umorismo.
Spiace che tanta scorrettezza, culturale e politica, sia finita poi nella più scontata delle correttezze politiche. Sul palco con Gustavo Zagrebelsky, il bambino antiberlusconiano e la parola d’ordine: “Faccio tardi la sera per rileggere Immanuel Kant”. L’Umberto Eco che elogiava Franti avrebbe accolto la frase con una risata.