Il laico e ridente ultimo saluto di Eco ai segni che servono per mentire
Il saluto laico, “sobrio e breve” nel cortile della Rocchetta al Castello Sforzesco sarà oggi per i milanesi laici e colti, radical ma con misura, anche un risarcimento per la mancata celebrazione laica e per il funerale invece religioso che un altro grande milanese, Luca Ronconi, aveva scelto per sé solo pochi mesi fa.
Il saluto laico, “sobrio e breve” nel cortile della Rocchetta al Castello Sforzesco sarà oggi per i milanesi laici e colti, radical ma con misura, anche un risarcimento per la mancata celebrazione laica e per il funerale invece religioso che un altro grande milanese, Luca Ronconi, aveva scelto per sé solo pochi mesi fa. Da qui allo scontento clericale e plateale con cui Vittorio Messori non ha perdonato, ieri sul Corriere, a Umberto Eco l’antica abiura della fede, ne corre. Eco dirigente della Giac, la Gioventù di Azione cattolica, Eco brillante promessa intellettuale della chiesa militante. Lui che però, nel 1954 suppergiù, se ne uscì ateo di chiesa, in pieno pacellismo trionfante, dovrebbe piuttosto far riflettere tutti i cantori che, allora come ora, sempre indugiano sul falso storico di una chiesa trionfante che di lì a poco sarebbe stata proditoriamente travolta dal Concilio e dai favolosi Sixties. Al contrario, Eco è semmai la dimostrazione di come quella forma (neotomista) del cristianesimo avesse poco o punto da dire, già allora, a un giovane intelligente. Se ne andò per la sua strada, seguendo i suoi segni da decifrare.
Eppure sempre facendo i conti, con micidiali punte di ironia risentita, non tanto con santa madre chiesa o con Tommaso, ma più alla radice, più al dunque. Eco ha fatto per una vita la guerra contro la loro dottrina dei segni. Fra le mille cose che in questi giorni di lui hanno ricordato, pochi – il circolo degli eruditi, come il filosofo del linguaggio Diego Marconi sul Domenicale del Sole – hanno riflettuto su Umberto Eco come filosofo del linguaggio, e non solo dei segni, e della conoscenza. Lui che aveva reso celebre e pop la definizione per cui “la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire”. E cioè reso universale, comprensibile anche a liceali e fumettisti, l’idea che i segni si riconoscono insomma per questo: che servono per dire balle. (E bada a te, e a chi ti offrirà una rosa). Che è l’esatto contrario, la confutazione corrosiva di quello che Tommaso e il pensiero cristiano avevano sempre posto come base stessa dalla conoscibilità della realtà. Ridotta in soldoni, che i segni sono qualunque cosa nota che ci “conduce per mano” verso qualcos’altro. Che è nascosto, ma c’è. Ed è vero.
Maestro scettico, non solo lui per carità, Eco è stato da questo punto di vista il divulgatore di una miscredenza universale (“Stat rosa pristina nomine…”) che vestita di ironia ha diffuso meglio di tanti altri pensatori quel nichilismo pacifico e di massa che è la stoffa dell’occidente così come lo sappiamo, quello che non crede più a nulla, compresi i propri occhi (le teorie del complotto). “Avevo voglia di uccidere un monaco”, postillò del Nome della rosa, ed era esattamente, ironicamente sincero.
Ha ucciso più certezze lui sulla bontà e veridicità del Creato e della Salvazione che schiere di scimitarre. Con la stessa invidiabile ironia con cui si è applicato a Manzoni, suo amatissimo e studiatissimo. Di cui non si è limitato a riscrivere in geniale versione gnostica l’Inno di Pentecoste (Secondo diario minimo). Ma soprattutto il romanzo. Se è vero almeno un po’, e lo è, che il Nome della rosa è una parodia del romanzo storico già dalla faccenda del manoscritto: che però per Manzoni esiste, mentre per Eco è solo una visione “di libri non ancora scritti”, insomma una menzogna. Una confutazione filosofica (teologica?) degli sforzi di don Lisander. Il quale nella sua gran macchina romanzesca volle mettere tutto – la storia, i fatti, i personaggi reali e quelli inventati – davanti al banco di prova assoluta della Verità e della scelta morale, del Bene e del Buono. Mentre per Eco e per il suo frate occamista tutto è falso, serve a mentire. A partire dalla religione, a partire dall’impossibile libro di Aristotele che insegnava a ridere di Dio.
Poi fate un passo indietro. E trovate Eco stesso che, incontrando il suo ornitorinco (Kant e l’ornitorinco) fa marcia indietro da certi suoi eccessi sui segni che mentono. E arriva a teorizzare che esiste però uno “zoccolo duro dell’essere” che pone dei limiti anche ai nostri discorsi e alla nostra capacità di mentire, e al nostro non credere a niente. Ma uno così, poteva fare altro che diventare l’irresistibile e ridente maestro del nostro occidente scettico?