Donchisciottesca e spalle al muro, la cultura laica italiana è nei guai
La perdurante, anzi crescente, attualità di Don Chisciotte sta diventando un problema, anzi il problema di tutta la cultura che fu definita, una volta, umanistica. A quanto pare gli scienziati sono piuttosto euforici perché sentono che il futuro sarà, è già, interamente nelle loro mani. Non avranno rivali se la ricerca scientifica (a pronta presa tecnologica) viene intesa come un valore in se stessa, indipendentemente da ciò che trova, fossero pure delle antiumane mostruosità. Gli intellettuali in cui prevale invece la tradizione umanistica sono con le spalle al muro. Capiscono e decidono sempre meno. Quelli che se ne rendono conto sono attanagliati dalla malinconia. Quelli più combattivi sono e non sanno di essere dei Don Chisciotte: vedono dei giganti da combattere dove ci sono solo delle enormi e potentissime macchine, dei giganteschi mulini culturali che riducono in polvere il passato in nome di un futuro senza volto.
Beninteso: nessun intellettuale old fashion vorrebbe somigliare a Don Chisciotte. Se però ragiona ancora “a tre dimensioni”, partendo dai fatti accertabili, passando ai valori con cui giudicarli e immaginando infine un futuro che sia in rapporto con il passato e si possa ragionevolmente prevedere, allora questo tipo di intellettuale vive sull’orlo del donchisciottismo.
Basta sfogliare i giornali per convincersi di questo. Capire è difficile, decidere è grosso modo escluso. Viviamo in un mondo sociale a funzionamento automatico. Le cose avvengono prima di essere pensate. Il mutamento è indotto da una iperproduzione di tecnologie informatiche e biologiche di fronte alla cui potenza la natura umana è solo materia molle. L’umanesimo laico è in ginocchio da decenni di fronte allo Sviluppo. Ricordando passate ubriacature utopistiche, non osa più concepire alternative alla manipolazione dell’umano e del naturale. In occidente resiste, a quanto pare, solo l’umanesimo cristiano, che in nome di Gesù e dei santi e considerando tuttora sacri i suoi libri sacri, può permettersi un certo donchisciottismo. Ha in mente un “altro mondo”, aspirando al quale la macchina di questo mondo può essere anche virtuosamente sabotata. Non è un caso se certi marxisti di ferro di una volta, oggi a corto di argomenti marxisti, guardino al Papato (prima Ratzinger, poi Bergoglio) come a una fonte di ispirazione. Solo il Papato infatti può ancora disporre di un’autorità culturale capace di opporsi alla cosiddetta mutazione antropologica. L’umanesimo laico, benché impotente e alla retroguardia, continua invece a sentirsi prometeico. Crede nel progresso illimitato.
Dette o ripetute queste solenni generalità, che cosa fare della nostra piccola Italia e della sua strana vicenda storica? Se ne parla in un ricco volume (ingiustamente trascurato, mi pare) a cura di Ernesto Galli della Loggia, “Questo diletto almo Paese. Profili dell’Unità d’Italia” (il Mulino, 356 pp., 29 euro). Un titolo così aulico, fra il patetico e il caricaturale, rivela forse nel curatore un certo consapevole donchisciottismo. La nostra Italia è un guaio sempre presente, ma le cause sono così complicate e così intrinseche alla sua storia che a questo punto, probabilmente, non c’è più niente fare. Il libro contiene una ventina di capitoli, ognuno dei quali meriterebbe un riassunto. Mi fermo su quello di apertura dello stesso Galli della Loggia e su due dei più culturali, quello filosofico di Roberto Esposito e quello letterario di Giulio Ferroni.
Per Galli della Loggia il problema più caratteristico della vita pubblica italiana è un ingombrante, soffocante, sostanzialmente anticivile e antimorale primato della politica, da cui la mania dello scontro, l’estetica dell’animosità, e la prevalenza politica dei partiti sullo stato. Mentre dall’Unità d’Italia fino a Giolitti lo stato borghese liberale tentò di modellarsi su una statualità altrove realizzata e al di sopra delle parti, creando una cornice istituzionale alla lotta fra partiti, dalla Prima Guerra mondiale in poi e con la nascita del fascismo questa lotta si esaspera. Il partito politico, uno di essi, quello fascista, si impadronisce dello stato. Il partito diventa stato e si è veri cittadini italiani solo se si è fascisti. Dopo il 1945, dice Galli della Loggia, l’antifascismo perpetua paradossalmente il primato della politica partitica. Ora lo stato è antifascista prima ancora di essere stato. E con un’opposizione comunista a cui durante la Guerra fredda è preclusa la possibilità di governare, questa opposizione cerca di governare senza essere al governo, mobilitando il suo vasto elettorato contro lo stato “clericofascista” o “asservito al capitale”. In queste condizioni i ceti dirigenti finiscono per non credere nella relativa autonomia e stabilità dello stato come buona amministrazione e buon governo nazionale.
[**Video_box_2**]Interessante e discutibile il discorso di Esposito sull’originalità della filosofia italiana, del cui attuale successo all’estero si dichiara compiaciuto. Avrei preferito che al di là del successo Esposito si fosse pronunciato sui contenuti e lo stile della nostra filosofia di successo. Per Esposito comunque da valorizzare è la nostra intera tradizione di pensiero, focalizzata su temi altrove in Europa trascurati: la storia, la comunità, la vita e dunque, oggi, la biopolitica. Da Machiavelli a Vico a Gramsci, dice Esposito, gli italiani mostrano di evitare le astrazioni. Purtroppo (secondo me) fra queste astrazioni evitate c’è l’individuo libero, esaltato sia in Inghilterra che in Francia e nell’idealismo tedesco. Ma evitare l’individualismo morale non è stato, mi sembra, un buon affare. E’ la ragione per cui gli individui, che in Italia sentono di non esistere, cercano di esistere precipitandosi nei partiti intesi come comunità, nelle consorterie, nelle massonerie, nelle mafie e nelle opere di Dio…
Non molto individualistica sembra perfino la nostra letteratura, di cui parla Ferroni. D’Annunzio, per esempio, non era propriamente un individuo, ma un superuomo da palcoscenico. E Croce cancellò l’io autobiografico annegandolo nobilmente nella storia dello Spirito. Il romanzo, con il suo onesto, analitico realismo psicologico e sociale, in Italia è stato debole e nasce con “I promessi sposi”, un’epica della Provvidenza. Così all’individualismo italiano manca la responsabilità morale nell’uso della libertà. La stessa modernità, esaltata dal Futurismo con una primitività irriflessa, si impone come un’esplosione violenta di estetismo allo stato puro. Se poi nell’insieme la nostra letteratura moderna ha scarsa unità, è polimorfica e decentrata, scettica e pessimistica, sconfitta se illuminista, marginale se fantasiosa, è nello stesso tempo un problema e una ragione per non smettere di leggerla e di capirla.