La coscienza di Chaplin, ovvero storia della riscoperta del Grande dittatore
Roma. La storia attorno e la storia dietro al “Grande dittatore” di Charlie Chaplin parlano di un graduale avvicinarsi (anche inconscio) del comico alla realtà non del tutto “in chiaro” del suo tempo, e di un passaggio repentino dalla dimensione visionaria – che l’aveva portato inizialmente a voler fare un film sonoro su Napoleone – alla dimensione satirica che lo porta a prendere di mira Hitler agli albori della Seconda guerra mondiale e nonostante i pareri contrari di case di produzione, colleghi e persino governi dell’epoca. E ora il critico e filologo del cinema Tatti Sanguineti (nella prima delle puntate della nuova serie di “Storie di cinema”, monografie in onda il martedì in seconda serata su Iris) riprende il filo delle letture sovrapposte che hanno portato alla storicizzazione del film, sull’onda della riscoperta del grande comico fatta dalla Cineteca di Bologna, che per dieci anni ha studiato l’Archivio Chaplin e che, tra il 2015 e il 2016, con i lavori di Cecilia Cenciarelli e Germano Maccioni, ha prodotto un libro e un documentario su retroscena e contesto storico del “Grande dittatore”. Facendo parlare le immagini e gli studiosi che hanno lavorato sull’archivio Chaplin, Sanguineti racconta il “Grande dittatore” come un percorso di presa di coscienza della grande maschera comica che a un certo punto decide di abbandonare (almeno in parte) la pantomina per sbeffeggiare in altro modo i suoi tempi moderni e bui, pur non sapendo che cosa stesse davvero accadendo in Germania (durante la preparazione e la lavorazione del film Chaplin non era a conoscenza dell’esistenza dei campi di concentramento, “altrimenti”, dirà poi, “non avrei potuto fare satira su questo argomento”).
Ma perché Chaplin decide di andare avanti anche se tutti attorno a lui si oppongono al progetto? Quanto dei cinegiornali di quegli anni lo influenza, soprattutto nella scena dell’incontro tra lo pseudo Hitler e lo pseudo Mussolini? E quanto il tema del doppio che è al centro del film – lo scambio di persona tra Adenoid Hynkel (Hitler) e il barbiere ebreo – parla anche del gioco satirico tra sosia che sui giornali di quegli anni (nelle vignette) corre tra la figura di Hitler e quella di Chaplin, disegnati con gli stessi baffetti e lo stesso volto? Dal materiale d’archivio studiato alla Cineteca di Bologna emerge un Chaplin sempre più politico che prende forma man mano che la realtà drammatica sembra confermare l’iperbole del film in preparazione: la notte dei Cristalli del novembre 1938 e lo scoppio della guerra nel settembre del 1939 (a ridosso del primo ciak). “Il grande dittatore” non è un film “propagandista” ma è il film di “un grande umanista”, dice la studiosa Cecilia Cenciarelli. Un film che in Italia, alla prima uscita dopo la fine della guerra, agli occhi di molti risultò quasi invedibile (troppo vicino ai fatti, troppo dentro ma anche troppo fuori dalla tragedia). Il resto lo dice George Orwell, in un articolo del 1940, dopo aver visto “Il Grande dittatore”: “… Qualunque intellettuale sarebbe in grado di imbastire un’incrollabile argomentazione a favore della soppressione del sindacato tedesco e della tortura degli ebrei. Ma l’uomo comune, che non è guidato dall’intelletto, che è dotato solo di istinto e tradizione, sa che ‘non è giusto’. Più che nell’invenzione comica, credo che il fascino di Chaplin risieda nella sua capacità di riaffermare la verità – soffocata dal Fascismo e anche, ironia della sorte, dal Socialismo – che vox populi e vox Dei sono la stessa cosa, e che i giganti sono spesso delle carogne”.