Quelle “gang of Berlino” degli anni prima del nazismo e gli incubi di oggi
La prima immagine che l’occhio della memoria registra, rimanda a “C’era una volta in America”. I riferimenti iconografici obbligati sul disastro sociale degli anni Venti-Trenta del Novecento, sulla criminalità sbandata e minorile, sull’apprendistato alla sopravvivenza passano da lì. Così anche la copertina italiana utilizza, fuori contesto, una fotografia di Lewis Hine, il celebre fotografo-sociologo della Depressione americana. Invece siamo a Berlino. Nei bassifondi di Alexanderplatz degli anni di Weimar. E fin dalle prime righe l’occhio della memoria si sintonizza un po’ meglio, almeno su “Berlin Alexanderplatz”, la mitica serie tv ante litteram di Rainer Werner Fassbinder. “Fratelli di sangue” è un piccolo, notevole caso letterario. Si fece notare alla Buchmesse di Francoforte nel 2013, ha avuto un bel successo negli Stati Uniti e in Italia lo ha appena pubblicato Fazi.
E’ l’unico romanzo, che si credeva disperso, di un autore di cui non si sa quasi nulla. Ernst Haffner fu un giornalista, e probabilmente un operatore sociale, sicuramente attivo tra 1925 e il 1933 a Berlino. L’unica fonte d’archivio che lo riguardi attesta che verso la fine del 1938 fu convocato da un ufficio del ministero della Cultura del Reich. Il suo romanzo uscì nel 1932, pubblicato da Bruno Cassirer, uno dei più influenti editori-intellettuali berlinesi, fu bruciato nei roghi dei libri del 1933, qualche anno fa una copia è stata casualmente ritrovata. A fare di “Fratelli di sangue” un caso e una lettura interessante sono però altri aspetti. Dopo le prime pagine, dell’immagine romantica della “band of brothers” alla Sergio Leone rimane poco. Ciò che colpisce è il linguaggio secco, ritmico. Le frasi brevi, frontali, con poche subordinate. Una scrittura di cronaca, ma non come ci immagineremmo lo stile di un cronista di strada degli anni Trenta, pur immerso nel clima della Nuova oggettività. Il libro segue, come un reportage più che come un diario, un periodo della vita di una banda di otto ragazzi, quasi tutti minorenni. La disoccupazione alle stelle, la fuga o l’abbandono da parte delle famiglie, la piccola delinquenza, il sottrarsi a un sistema coercitivo-rieducativo prussiano che fa acqua da ogni buco, la diffusione della prostituzione minorile sono fenomeno noti e molto indagati. Sono il portato mondiale della Grande guerra e della grande crisi, se ne uscì chi con il New Deal, chi col totalitarismo. E tutti, alla fine, con una seconda gigantesca guerra. Ne hanno raccontato grandi scrittori come Isherwood, film angosciosi come “L’uovo del serpente” di Bergman, in passato. Ma la fascinazione, o l’interrogazione, nei confronti degli anni di Weimar ha una sua dimensione recente, ridestata dallo spettro della crisi economica dopo il 2008.
[**Video_box_2**]Quell’anno, Sellerio ripubblicò un romanzo di Hans Fallada, “E adesso, pover’uomo?”, del 1933, che raccontava con differenti mezzi espressivi la stessa crisi tedesca. Lo “spettro di Weimar” è divenuto, pure con evidenti forzature, un tema dell’immaginario europeo degli anni Dieci. Haffner ha la capacità di fare di quel mondo che ha sotto gli occhi un ritratto oggettivo, partecipe ma raffreddato dalla volontà di descrivere. Il grande critico e futuro sociologo del cinema (quando poi emigrò in America) Siegfried Kracauer ebbe a dire sulla Frankfurter Zeitung – ha scritto il New York Times – che “se si realizzasse un film da questo libro, il libro avrebbe una lezione oggettiva che andrebbe molto più in profondità che non i soliti film sulle gang”. Dopo molti decenni, l’interesse di “Fratelli di sangue” è forse meno dovuto alla rappresentazione delle gang giovanili, e ha invece qualcosa da dire sull’oggi. E non solo sulla fame di memoria della Germania, che porta sempre con sé la paura delle due cose che i tedeschi non riescono proprio a guardare: l’incubo di Weimar e le macerie della Seconda guerra mondiale. Ma c’è anche un più sotterraneo, inquietante rimando alla nostra memoria a breve termine che quelle frasi secche suscitano. Basta il racconto del viaggio clandestino, appeso sotto un treno da Colonia a Berlino, di uno dei protagonisti per evoca le immagini di Calais. E quel che segue.