Marco Rubio e Jeb Bush

I liberal pro life

Giuseppe Perconte Licatese
Quando il movimento per la vita era il vanto della sinistra yankee. Un libro spiega perché

Roma. In queste primarie, la posizione sull’aborto ha finora costituito un termine di paragone cui nessun contendente ha rinunciato per dimostrare la propria ortodossia di partito. Trump a parte, la polarizzazione rappresentata dai candidati è estrema. Marco Rubio e Ted Cruz, incalzati con la classica domanda sul caso limite (stupro e incesto), hanno ribadito l’adamantina certezza che la vita comincia al concepimento e che il suo diritto viene prima della libera scelta. Contro di loro Hillary Clinton – in vantaggio su Sanders, che non può vantare gli storici legami della rivale con il mondo dei “diritti riproduttivi” e si è alienata Planned Parenthood dicendo che “è parte dell’establishment” – si pone come l’unica vera garante dei diritti delle donne, minacciati da un nuovo tentativo del potere maschile di rovesciare le conquiste del femminismo. Uomini conservatori, dunque, contro donne emancipate; e il tradizionale contrasto tra avversari e sostenitori dell’intervento statale nelle questioni relative all’etica e alla cura. Eppure, è da poco uscito negli Stati Uniti un libro che contesta questa narrativa, ricostruendo un mondo – il passato, ha detto qualcuno, è una terra straniera – in cui i candidati repubblicani sono pro choice, le varie denominazioni religiose sono tutto meno che compatte su posizioni pro life e gli afroamericani che oggi votano Clinton sono tra i gruppi più contrari all’aborto.

 

“Defenders of the unborn” (Oxford University Press) di Daniel K. Williams, professore di Storia alla University of West Georgia, comincia in medias res: nel 1972, appena un anno prima della sentenza Roe v. Wade che avrebbe legalizzato l’aborto, il movimento per la vita appare al culmine del successo, dopo aver fatto fallire disegni di legge avversi in ben venticinque stati ed essersi riunito in una grande manifestazione a Central Park, a New York. Come si era coalizzato allora un vasto ed ecumenico fronte tra gli americani, ancora oggi vivo nelle centinaia di migliaia di “marciatori per la vita” del 2013? E perché ancora oggi (smentendo quanti credevano nell’inevitabile normalizzazione delle nuove libertà nella coscienza americana) la questione rimane così fortemente divisiva? Secondo Williams, la tesi che fa del movimento pro life una reazione al femminismo e alla rivoluzione sessuale, assai diffusa nella letteratura accademica, è uno stereotipo successivo al 1973 e non un’adeguata ricostruzione delle ragioni e del radicamento della causa tra gli americani. La storia comincia negli anni Trenta, quando fu l’establishment medico a chiedere alla politica di permettere l’aborto, e non in nome della libertà delle donne, ma di schemi utilitaristici di benessere sociale e controllo delle nascite. I medici cattolici e la chiesa si levarono allora contro quelle che definivano “filosofie pagane e irrazionali” che avrebbero trasformato i dottori in “coloro che scavano la tomba della nazione”. Anche per questo, per molto tempo la “causa” fu identificata da chi la ostacolava con battaglie ingaggiate nel nome del cattolicesimo: nonostante infatti non pochi pastori protestanti e diversi ebrei ortodossi si fossero uniti al movimento, altri religiosi invece lamentavano l’influenza dei papisti nel costume, o comunque non derivavano dalla propria teologia spinte antiabortiste. A ogni modo, anche se in entrambi i fronti la guida rimase nelle mani di uomini, ebbero un ruolo importante la mobilitazione delle donne e il femminismo della differenza, che nelle misure a favore della maternità vedeva una protezione della dignità della donna. Alla lotta per i princìpi si univa poi quella alle cause economiche dell’aborto: la tutela della vita era dunque considerata materia suscettibile di intervento dello stato federale, inserendosi di conseguenza in una più ampiamente condivisibile piattaforma di welfare.

 

La crisi con il Partito democratico

 

Sopra ogni cosa, però, Williams attribuisce il successo del movimento degli anni Sessanta alla strategia – non priva di ambiguità – di separare la propria causa dall’etica sessuale e dal diritto naturale per riformularla nel linguaggio dei diritti civili: i “non nati” erano una minoranza bisognosa di tutela, non molto diversamente dai poveri, o dagli afroamericani, e i loro difensori si trovarono talvolta alleati degli attivisti contrari alla corsa agli armamenti e alla pena di morte. Il rapporto privilegiato del movimento col Partito democratico, invece, entrò in crisi quando molti politici ed elettori cattolici credettero di essere stati autorizzati dal Concilio Vaticano II a dissentire dalla gerarchia.

 

Nell’epilogo, l’autore riassume la storia dopo il 1973, segnata dalla fine della trasversalità del movimento: nel Partito democratico le posizioni pro life sarebbero state sistematicamente marginalizzate, mentre in quello repubblicano la causa sarà incorporata in una più generale etica familiare e religiosa. Tuttavia, il movimento ha nella sua prima stagione stabilito un principio politico, giuridico e laico ancora oggi centrale nella mentalità americana: il riconoscimeno costituzionale del diritto alla vita.

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