De gustibus, ovvero che cosa significa (non) cambiare idea sulla musica atonale e sentirsi comunque fichi
Ogni uomo si inventa prima o poi una storia, che ritiene la sua vita, e dentro la storia sceglie che cosa gli piace, che cosa lo turba, che cosa detesta, che cosa ha imparato a farsi piacere (ad esempio il tofu, o la musica atonale, certe volte perfino le donne). Le persone costruiscono e cambiano i propri gusti, automanipolano se stesse (per amore, per interesse, per desiderio di cambiare) e aggirano e cancellano e superano i propri “gusti genuini”, si liberano di essi, li trasformano. Si fanno piacere qualcosa. Per parafrasare Feuerbach, scrive Emanuele Arielli, docente di Estetica a Venezia, in questo piccolo e fulminante saggio in uscita per Raffaello Cortina (“Farsi piacere, la costruzione del gusto”): l’uomo è ciò che consuma culturalmente (e nella cultura c’è tutto, anche il whiskey buttato giù liscio e bruciante per emulare gli eroi ruvidi di “Mad Men”), e allora ecco: noi diventiamo ciò che vogliamo essere, esercitando una tirannia su noi stessi. Ci sforziamo, ad esempio, di amare la cucina giapponese, boccone dopo boccone (come i bambini con la verdura), per allargare i nostri orizzonti gustativi e sociali, per avere accesso disinvolto ai locali trendy, a nuove possibilità, anche a un’idea di alimentazione salutare, e a un certo punto, avendocela fatta, fingiamo con convinzione (ovvero: crediamo) di andare pazzi per le bacchette, rifiutiamo con un gesto secco l’offerta di una forchetta, certi che il cibo ne risentirebbe, oltre all’intera estetica del gesto. Ci sforziamo di cambiare, insomma, non sempre rendendocene conto.
Siamo fatti di aspirazioni, e le nostre aspirazioni cambiano. Credevamo di aspirare a un grande amore, e invece era solo una vita tranquilla. Ci vergognavamo di amare i film dell’orrore, fingevamo di disprezzarli, così poco colti, così poco profondi, ma a poco a poco abbiamo provato rabbia per questa vergogna, rabbia per il nostro senso di inadeguatezza e la mancanza di coraggio, e infine, grazie anche a Quentin Tarantino e al recupero dello splatter, siamo esplosi contro lo snobismo ipocrita e a favore dei piaceri grezzi. Abbiamo recuperato la nostra passione proibita e a lungo sotterrata, ma abbiamo avuto bisogno di un gran fico a cui appoggiarci, un gran fico che non ci facesse sentire soli con i nostri gusti burini. Oppure abbiamo avuto bisogno di crescere, di capire che non amavamo davvero Herman Hesse, e forse nemmeno “Il piccolo principe”, e a dirla tutta “Jules et Jim” non è un capolavoro.
“Il gusto è fatto di mille disgusti”, diceva Paul Valéry, e allora la vera eresia è scegliere ciò che non piace. Cambiarlo in corsa. Rendersi conto che esistono pochissimi gusti genuini che possiamo permetterci di non cambiare (come diceva Corrado Guzzanti: “La risposta è dentro di te. Però è sbagliata”), e che dobbiamo rifondarci sempre ex novo, come avanguardisti, sovvertire noi stessi (se siamo padroni di noi stessi, siamo anche servi di noi stessi), ascoltare le pressioni del gruppo e grazie al gruppo scoprire Philip Dick, ad esempio, ed essere felici quando ci accorgiamo di avere gli stessi gusti della persona che in questo momento ci sembra la più fantastica del mondo (secondo i nostri gusti). Allora, se ce lo dice lei, siamo disposti ad allenarci ad ascoltare la musica atonale. Non siamo mai innocenti, mai puri nella scelta di chi vogliamo essere. Ma anche questo è un grande esercizio di libertà e di volontà. E alla fine, con moltissimo coraggio e presa di distanza, possiamo farcela, riuscire a dirlo: io non sono i miei gusti.