Giù le mani dal mio piatto! Il manifesto per la libertà di alimentazione
La libertà di alimentazione è il pezzo più gustoso della libertà di espressione. Io mangiando l’agnello pasquale esprimo il mio essere cristiano, mangiando pesto di cavallo esprimo il mio essere parmigiano, bevendo vino esprimo il mio legame con la terra che prima di chiamarsi Italia si chiamò Enotria, e quando riesco a mettere le mani su una bottiglia di vero assenzio ecco che posso esprimere appieno il mio discepolato verso Baudelaire. E’ un discorso che vale per millanta ingredienti e tante appartenenze: chi mangia tofu esprime il suo vegetarianesimo, chi compra cibi halal esprime il suo islamismo, chi beve il caffé del commercio equosolidale esprime il suo comunismo, chi ordina Martini Cocktail esprime il suo bondismo, e potrei andare avanti a lungo. Dispensa e frigorifero mi descrivono quanto la libreria, fra gli scaffali di cucina e quelli dello studio ci sono nessi evidenti, lì c’è il Lambrusco e qui Guareschi, lì la ricotta forte e qui Scotellaro, lì i ceci e qui Orazio, lì la piadina e qui Pascoli, lì il foie gras e qui Dumas… Mettere all’indice un cibo equivale a mettere all’indice un libro con la differenza che di libri proibiti quasi non ne esistono più (in Germania hanno appena rimesso in circolazione il “Mein kampf”) mentre la lista dei cibi ufficialmente o ufficiosamente vietati si allunga di continuo.
Dei tanti elementi che costituiscono la libertà di espressione, la libertà di alimentazione è l’unico universalmente accessibile: pochi sono capaci di scrivere un romanzo, di dipingere un quadro, di comporre una canzone, di girare un film, tutti invece sono capaci di mangiare. Pertanto i continui attentati alla libertà di alimentazione sono perfino più gravi di quelli alla libertà di espressione comunemente intesa. Sono più classisti: un colto può consolarsi leggendo Grimod de La Reynière o Anthony Bourdain, un ricco può prendere l’aereo e cenare in un paese libero anche dal punto di vista alimentare, ad esempio il Giappone, mentre chi non possiede né soldi né cultura deve adattarsi senza fiatare ai cibi permessi dallo stato dietista. C’è in giro voglia di stato impiccione, di stato etico, seguendo una parabola che va da Hegel a Debora Serracchiani, dal filosofo per cui “lo Stato è la realtà dell’idea etica, i singoli hanno il dovere supremo di appartenere allo Stato” alla presidentessa secondo la quale “noi non possiamo pensare solo all’economia ma abbiamo il dovere morale di pensare anche alla crescita morale di questo paese”. Alle menti servili non dispiace, anzi, che conti correnti e menù vengano monitorati dall’alto, e le menti servili pullulano ovunque, come si evince dal fatto che la censura alimentare non conosce destra e sinistra: la lunga, ingombrante presenza nel partito berlusconiano della pasionaria animalista Michela Vittoria Brambilla, nemica della ricerca scientifica e autrice di proposte di legge per vietare il consumo di cavallo e coniglio (due anni di carcere ai trasgressori), dimostra che la libertà non è di questo liberalismo.
La libertà di alimentazione è un pezzo della libertà di cultura, proibire un ingrediente per compiacere le signore vegane o i burocrati di Bruxelles è come coprire una statua classica per compiacere un teocrate iraniano. Un grande critico gastronomico spagnolo, Rafael García Santos, ha colto nel segno con questa doppia, felice definizione: “L’alta cucina è arte creativa e la cucina tradizionale è cultura”. Entrambe le facce della medaglia gastronomica meritano pertanto di essere difese dai braghettoni, dai liberticidi, e nelle costituzioni di tutto il mondo abbondano gli articoli che sembrano scritti all’uopo. Ma la Carta non serve finché non diventa carne. Secondo la Costituzione italiana “l’arte e la scienza sono libere”, inoltre “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, e sono espressioni finanche eccessive perché basterebbe che la Repubblica non ostacolasse coi suoi innumerevoli lacci e lacciuoli il lavoro dei produttori e dei ristoratori, e che non omettesse di difendere dalla violenza animalista i cuochi come Cracco che insistono a cucinare il piccione. Si capisce che i proibizionisti alimentari non minano soltanto la tradizione, il patrimonio identitario costituito da ricette avite e riti della tavola, ma pure l’innovazione. Quando Bottura tirò fuori dal cilindro le uova embrionali ebbi paura per lui, temetti una visita dei Nas che poi arrivarono davvero anche se per altro motivo: i carabinieri del Nucleo antisofisticazioni, che forse avevano perso gli indirizzi dei ristoranti cinesi, proprio da lui cercarono additivi venefici. Naturalmente non trovarono nessun veleno e non riuscirono a multarlo ma intanto avevano scatenato le televisioni e i coglioni: Bottura usa additivi! Certo, usava e probabilmente usa ancora l’agar agar, addensante ricavato dalle alghe, più pacifico della colla di pesce usata dalla nonna per rendere consistente la panna cotta.
La libertà di alimentazione è ovviamente un pezzo della libertà di culto, non esiste religione vecchia o nuova che non si nutra di prescrizioni alimentari, salvo l’unica vera religione il cui fondatore così parlò: “Non ciò che entra nella bocca rende impuro l’uomo; ciò che esce dalla bocca, questo rende impuro l’uomo!”. Impuri sono dunque i moralismi vegani a cui nessun cristiano deve piegarsi perché Cristo, modello perfetto, era onnivoro: a Pasqua mangiò agnello e dopo la resurrezione, a Emmaus, ebbe voglia di pesce arrosto. Impuri e impostori, come scrive san Paolo nella prima lettera a Timoteo: “Impostori imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati. Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi”. L’ortoressia, che è l’ossessione, ammalante, per il nutrizionalmente corretto, occupa gli spazi lasciati vuoti dall’ortodossia. Colpa dei preti che parlano di tutto l’opinabile ma non dell’indiscutibile liberazione dai tabù alimentari realizzata da Cristo, e molto di rado ricordano l’oppressione che il cristianesimo subisce nei paesi dove i proibizionisti alimentari hanno il potere assoluto, come l’Arabia Saudita in cui il possesso di vino implica arresti e frustate e dunque l’eucarestia è illegale. Non lo dicono i preti, non lo dice nessuno, bisogna pertanto dirlo qui: animalisti e wahabiti hanno qualcosa in comune, il medesimo vizio di mettere le mani nel piatto e nel bicchiere altrui.
La libertà prima che un diritto è un dovere, ci ha insegnato Oriana Fallaci, quindi abbiamo il dovere di non sottometterci ai politici e ai fanatici che vogliono imporci il loro credo alimentare. L’inviolabilità del domicilio fissata nell’articolo 14 della Costituzione va estesa al frigorifero, a tavola ogni uomo dev’essere libero di ubbidire a Dio (“Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo”, Genesi 9,3) o al proprio edonismo, e se la gola è un vizio va considerata materia di confessione e non di legislazione. Resistere ai proibizionisti alimentari è indispensabile per salvare la tradizione dalla completa distruzione e l’innovazione dalla metastasi normativa, per difendere gli artigiani, gli agricoltori, i distillatori, gli allevatori, le identità nazionali, regionali e comunali, gli orti, i macelli, le cantine, le malghe, le trattorie, i laboratori, la varietà dei sapori e dei piaceri, la dignità e lo statuto dell’uomo.
Ecco oggi qualche esempio di libertà alimentare.
“Ho desiderato ardentemente di mangiare questo agnello pasquale” (Vangelo secondo Luca 22, 15-16, traduzione di José Miguel Garcia).
“Considera l’aragosta” è un libro del rinomato David Foster Wallace. Considerando il titolo non l’ho mai letto, mi è bastato il paratesto Einaudi secondo il quale lo scrittore americano impiccatosi nel 2008 voleva farci “riflettere sul tragico destino dei crostacei” buttati vivi nei pentoloni. Se avesse scritto un “Considera il bambino” per farci riflettere sul tragico destino dei feti di ventiquattro settimane legalmente sottoposti in molti stati Usa ad aborto a nascita parziale (perforazione del cranio + aspirazione del cervello), lo avrei stimato di più e non lo avrei letto comunque, sono un ragazzo delicato. Ricordo invece con piacere una chitarrina con aragosta con vista sul mare di Pesaro, anche se poi, e pazienza se farò la figura dello snob, il mio crostaceo preferito è la cicala greca.
L’assenzio non è illegale, è illegale l’assenzio prodotto senza licenza. Ma dato che l’unico assenzio esistente è prodotto senza licenza, l’assenzio è illegale. Non è colpa del produttore, è colpa delle tasse, dei tributi fissi che un piccolissimo produttore superartigianale non può permettersi di pagare a meno che non sia capace di vendere ogni bottiglia a 300 euri. L’unico produttore italiano di vero assenzio non è capace nemmeno di venderle a 30 euri, e lo dico perché lo conosco bene: è un mio amico sulla cui puntualità è meglio non fare affidamento, un autentico bohémien bolognese. Poi in giro ci sono vari liquorini verdi denominati absinthe, tutti legali e tutti inutili siccome molto lontani dal vero assenzio siccome strapieni di anice, finocchio, menta, zucchero… Li bevi e ti domandi: possibile che questa melassa corrisponda all’assenzio che nell’Apocalisse rende amarissime, imbevibili, un terzo delle acque? Non è possibile, infatti: il vero assenzio non lo trovi sugli scaffali delle enoteche e dei bar, lo trovi, se lo trovi, sottobanco.
Anche un’erbetta può eccitare il proibizionista alimentare. La borragine è uno dei motivi per cui vale la pena di fare la Cisa o il Cento Croci o il Bocco e raggiungere la Liguria dove i tortelli anziché grevi di ricotta, come in Emilia, sono di erba ingentiliti. Purtroppo questi ravioli (i liguri li chiamano ravioli) sono a rischio da quando fra Roma e Bruxelles hanno scoperto che la Borago officinalis contiene alcaloidi forse tossici a livello epatico e forse forse, a voler dar retta al ministero apposito, perfino cancerogeni. La borragine viene consumata dall’alba dei tempi e l’età media dei liguri è la più alta a livello nazionale ma fra Roma e Bruxelles non vogliono sentir ragioni e intanto l’hanno vietata nei rimedi erboristici, e pazienza per le sue proprietà emollienti, espettoranti, diuretiche, sudorifere, depurative, antireumatiche, anti infiammatorie. Non vogliono sentir ragioni e nemmeno dar spiegazioni, rispondere a domande: gli alcaloidi in questione sono, come è lecito supporre, termolabili? Pare comunque che le percentuali siano risibili e siccome, lo insegna Paracelso, è la dose che fa il veleno, i pericoli riguarderebbero chi si strafoga tutti i giorni e tutto l’anno di ravioli. Anche in tal caso non sarebbero maggiori di quelli derivanti da uno strafogarsi quotidiano di prezzemolo (da quando esistono anticoncezionali e feticidio di stato nessuno ricorda che il prezzemolo ad alte dosi è un abortivo).
Effettivamente è da tanto che non mangio bistecche di cavallo, il cavallo lo preferisco macinato e crudo e lo aggredisco (sempre a pranzo, mai di venerdì) due o anche tre volte la settimana. Qui a Parma si chiama cavallo pesto e un tempo sarà stato un modo per rendere commestibili equini vecchissimi e durissimi, adesso invece è squisitezza giovane. Proibita in California, deprecata in Inghilterra, pure in Italia periodicamente cercano di metterne il consumo fuorilegge e una volta è la solita Brambilla, una volta è Paola Frassinetti ex Fronte della Gioventù-Movimento sociale-Alleanza nazionale-Popolo della Libertà e ora se non sbaglio Fratelli d’Italia (sorella mia no, però). Oltre a me i paladini della carne di cavallo sono Massimo Bitonci, sindaco leghista di Padova, capoluogo di una provincia ippofaga, e il cavallerizzo Giovanni Lindo Ferretti: “Una funzione alimentare sempre più osteggiata ma che permette la sopravvivenza di tipologie e razze”. Il fondatore dei CCCP una volta mi disse, eravamo nell’Appennino reggiano, che però il suo cavallo non lo avrebbe mangiato mai: mi offrii io volontario.
“La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”. Non so chi abbia davvero pronunciato o scritto questa frase eppure la riconosco perfetta, anche per i datteri di mare che mi permettono di mostrare come la libertà di alimentazione non si risolva in una vorace e cieca irresponsabilità. Mi sono stati offerti eppure non li ho mangiati, non perché illegali ma perché immorali: mangiando Lithophaga lithophaga si contribuisce al crollo del gradone pugliese, e poi qualcuno si farà male sui frammenti aguzzi. Sono un uomo, non un mollusco, e ho dei doveri nei confronti degli uomini, non dei molluschi. Mi dedicherò a ostriche, arselle, cozze, capesante, fasolari, vongole, taratufi, cannolicchi, e fino a quando non entreranno in produzione gli allevamenti su scogli artificiali gli unici miei datteri saranno i frutti dell’apposita palma.
Non tanto tempo fa ho imparato la parola “deculturazione”, che è la perdita della propria cultura da parte di un popolo, di un gruppo sociale, sotto la pressione di modelli culturali esterni. E’ quello che è avvenuto in Liguria negli ultimi decenni: ancora nel 1967, non nel Medio evo, un libro di ricette contemplava, per due specialità liguri, il filetto di delfino. Il libro si intitola (non uso il passato perché continuamente ristampato dall’editore Solares) “Le ricette regionali italiane” mentre le ricette sono la Capponada di pagina 135 e il Cappun Magru di pagina 142. Nelle liste degli ingredienti l’autrice Anna Gosetti della Salda scrive precisamente così: “Mosciame (filetto di tonno o di delfino, essiccato al sole)”. Considerando questo magnifico volume un testo sacro della cucina nazionale (giudizio che condivido con Edoardo Raspelli) ho cercato il delfino letteralmente per mari e per monti: l’ultimo avvistamento del cetaceo è stato nell’autunno scorso in un ristorante dell’Appennino emiliano dove un paio di amici l’hanno mangiato senza ricordarsi di avvisarmi, accidenti a loro. Per quanto riguarda i mari sono anni che tampino pescatori e pescivendoli, senza esito alcuno, e attraverso un amico comune ci ho provato perfino con Pino Cuttaia. Pare che dopo aver ascoltato la mia richiesta il pluristellato cuoco di Licata sia sbiancato: l’amico ha temuto che si mettesse addirittura a piangere. A piangere dovrebbero essere invece i liguri, per colpa della presente dittatura del sentimentalismo (il delfino non è nemmeno a rischio di estinzione) se vogliono mangiare il Cappun Magro come tradizione comanda devono trasferirsi in Giappone.
Il cuoco altoatesino Norbert Niederkofler, chef del ristorante St. Hubertus in Val Badia, ha fatto carriera col foie gras in carta ma adesso è diventato buono e l’ha abolito per non essere complice del gavage, l’alimentazione forzata delle oche. Nessun problema: la libertà di alimentazione è anche libertà di astenersi. Qualche problema invece quando definisce il suo nuovo atteggiamento “cucina etica” e cerca di diffonderlo con eventi dai nomi anglofoni (e la tanto sbandierata valorizzazione del territorio?) a cui partecipano colleghi altrettanto valorosi quali Bottura, Cuttaia, Romito, Tokuyoshi, Michel Bras. Come se noialtri che invece il foie gras continuiamo a mangiarlo fossimo pervertiti privi di scrupoli. Mi verrebbe da rispondere con Nicolás Gómez Dávila: “L’etica entusiasma il miscredente, mentre il credente semplicemente si rassegna alla morale”. Ma chissà se Niederkofler è cattolico, dalle foto sembra un guru indiano. E chissà quante persone percepiscono, o anche soltanto subodorano, la differenza fra i due apparenti sinonimi. E allora provo a dirla in altro modo. Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset considera la caccia “manifestazione della gerarchia zoologica”. Anche il gavage sembra una manifestazione di questa gerarchia, e la gerarchia è importante: secondo la filosofa francese Chantal Delsol “la mancanza di una frontiera netta tra l’animale e l’uomo toglie a quest’ultimo la sua sacralità”.
Se tutto questo è vero, e io credo che lo sia, il gavage è uno degli ultimi argini a difesa della dignità dell’uomo, oggi minacciata dalla piena dell’animalismo e della tecnoscienza. Mangiare foie gras è un atto umanista.
Uno scrittore veneto vorrebbe trascinarmi a Vicenza dove esisterebbe ancora una trattoria che serve, immagino alquanto di soppiatto, carne di felino. Apprezzo molto la fedeltà alle tradizioni (il gattivorismo di Vicenza era famoso) e l’illegalità mi eccita, eppure declino l’invito perché gli animali cosiddetti domestici mi fanno senso sia da vivi che da morti. Continuando a considerare valido l’insegnamento del miglior illuminismo secondo il quale posso detestare quello che dici (mangi) e però difendere il tuo diritto di dirlo (mangiarlo).
Un cuoco famoso me ne ha cucinato uno alla cacciatora, come si prepara il coniglio, e infatti di coniglio sapeva. Un cuoco ignoto (ignoto al grande pubblico) me ne ha servito uno sotto forma di hamburger: più delicato di qualsiasi hamburger legale. Curiosamente entrambi gli istrici erano stati abbattuti intorno a Zocca, il paese di Vasco Rossi che mi piacerebbe coinvolgere in questa battaglia di libertà: tu che sei sempre stato antiproibizionista in materia di droga, sei disposto a esserlo anche in materia di cibo?
Veniva da Sankt Moritz, era quindi una marmotta di altissimo livello, e un cuoco di livello analogo me la cucinò a casa propria (molte delle migliori e più estreme esperienze gastronomiche inevitabilmente si vivono in privato). Avendo goduto di una simile fortuna non sto brigando per ripetere l’assaggio, non voglio rischiare che un bel ricordo sia rovinato da esemplari meno nobili e cuochi meno bravi. Ovviamente accetterei con grande tranquillità se Davide Scabin mi invitasse a gustare una marmotta di Zermatt, o Paolo Lopriore una marmotta di Davos.
C’è questa mia amica siciliana che ha un sacco di allergie, non può mangiare una lunga lista di ingredienti e guarda caso i suoi allergeni sono tutti vegetali. “Il fatto che quasi nessuno sia allergico allo speck si spiega facilmente. Anche noi siamo fatti di carne e di norma la digeriamo bene” scrive Giulia Enders nel suo “Intestino felice”, uno dei pochi best seller recenti che insegnino davvero qualcosa. “Stasera ho mangiato neonata a non finire” mi scrive l’amica, finalmente sollevata dalla necessità della bistecca (anche le cose buone stufano se sei obbligato a mangiarle ogni giorno, a pranzo, a cena e pure a colazione). So bene che la neonata, che in altre regioni prende il nome di gianchetti, bianchetti, cicenielli, novellame, andrebbe lasciata in mare, e che nutrirsi di vita giovanissima ricorda molto Erode e Marco Pannella. Però forse per le persone poliallergiche, la cui salute è stata compromessa dagli indigesti vegetali, andrebbe fatta un’eccezione.
C’era una volta una bravissima cuoca della Bassa emiliana che con le sue mani faceva un nocino buonissimo ma la strega Asl, ossessionata dall’ortoressia e invidiosa dei godimenti altrui, la multò costringendola a servire, da quel giorno, nocino industriale. Un malefico groviglio di leggi e leggine regionali, nazionali e continentali conferisce alla strega Asl tutti i poteri su tutti i ristoratori a cui restano due possibilità: 1) piegarsi ai suoi capricciosi e costosi voleri; 2) ribellarsi e affrontare, col solo fragile usbergo della qualità, “il lato oscuro della forza”, come ormai gli stessi funzionari statali descrivono il proprio potere di vita e di morte sui locali pubblici, e dunque su nocini e bargnolini e limoncini.
Qualcuno si stupirà di trovare il prosecco in una lista di proibizioni alimentari, sarà qualcuno che non ha mai lavorato in campo alimentare e non conosce la diarrea regolatoria che sta sommergendo il settore. Non è vietato il prosecco, chiaro, ma è vietato chiamare prosecco il prosecco che più merita il nome di prosecco. Per noi bevitori di palato virile il prosecco ha un problema: a dispetto del nome non è secco, un insopportabile residuo zuccherino lo rende effeminato e stucchevole, candidato ideale per riprovevoli spritz. Il problema è stato risolto dall’azienda Ruggeri che produce un prosecco con residuo zuccherino bassissimo, solo 4 grammi per litro: finalmente un prosecco secco! Ma non si può scrivere sull’etichetta e così un fantastico vino ricavato da uve prosecco, nella zona del prosecco, con la tecnica di produzione del prosecco, è obbligato a denominarsi genericamente Extra Brut. Non esiste libertà di alimentazione senza libertà di espressione: se al produttore, vittima di normative orwelliane, è proibito descriverti il suo prodotto, tu sarai costretto a bere prosecchini dolciastri per il resto dei tuoi giorni.
Me lo promettono da anni. Un amico vignaiolo una notte si è appostato, con tanto di fucile, per impedire l’ulteriore devastazione della vigna: pensava fossero cinghiali e ne avrebbe punito l’ingordigia col piombo. Invece era un tasso e non ebbe il coraggio di sparargli, mi disse, perché in piedi sulle zampe posteriori, tutto intento a divorare grappoli, sembrava quasi umano. Un mio macellaio, pure lui cacciatore, mi racconta che nelle golene del Po abbondano: non capisco cosa aspetti o forse sì, capisco, vuole che continui a comprare la sua carne allevata, teme che mi abitui alla tanto più salubre cacciagione. Adesso un altro amico si è procurato due tassi che giacciono da mesi nel congelatore (a proposito: quanto durano i tassi nel congelatore?), in attesa di un cuoco che sappia scuoiarlo e cucinarlo. Non è cosa per dilettanti, un tasso, e nemmeno per i troppi cuochi professionisti eppure incompleti che si riforniscono di carni già tagliate, quasi già masticate. Intanto il tempo passa e l’unico mio rapporto col tasso continua a essere quello col mio pennello da barba.
La assaggiai a Potenza da ragazzo. Non avevo sparato io, purtroppo, però avevo accompagnato sulle montagne intorno a Vaglio chi lo aveva fatto. La ricordo coriacea e dal forte odore di selvatico, forse si trattava di un vecchio maschio o forse non era stata frollata adeguatamente. Spero in una seconda occasione.