Il diritto all'eresia, sconosciuto all'islam, allontana il dialogo con l'occidente
"E’ possibile un dialogo fra musulmani e cristiani?”. Questo è l’interrogativo che è al centro del libro “La tragedia del diavolo. Fede, ragione e potere nel mondo arabo” (pubblicato da Luiss University Press e di cui il Foglio ha scritto martedì scorso) al quale il suo autore – l’intellettuale siriano Sadik al-Azm – ha dato una risposta negativa. E si capisce facilmente perché. Nel Dar al islam non è accettato ciò che, da tempo, la stragrande maggioranza dei cristiani considera un valore cardinale: quello che Gaetano Salvemini – nel memorabile discorso da lui tenuto durante il Congresso degli intellettuali che si svolse a Parigi nel 1935 – riteneva essere la base assiologia della civiltà occidentale: “Il diritto di essere eretici”.
Certo, il diritto di essere eretici non è punto nato dal ventre del cristianesimo. Tutto il contrario. Lo ha riconosciuto l’autorevole costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde, così esprimendosi: “La libertà religiosa deve la sua origine non alle chiese, né ai teologi e neppure al diritto naturale cristiano, bensì allo Stato moderno, ai giuristi e al diritto razionale moderno”. E lo ha anche riconosciuto Enzo Bianchi così argomentando: “Essendo la presenza nemica del demonio al cuore della creazione, è costitutiva della vita cristiana la lotta contro satana, l’avversario, il diavolo, il nemico, l’accusatore, il seduttore di tutta la terra, il principe di questo mondo”. Di qui – prosegue il priore di Bose – il fatto che i cristiani “hanno voluto dare il nome di nemico a una presenza storica precisa che aveva il torto di essere semplicemente altra, diversa, combattendola con le armi e le persecuzioni fino all’annientamento”.
Che cosa, allora, ha posto fine alla visione demonizzante del diverso e alla sadica caccia all’eretico? La riposta ce l’ha data, fra gli altri, il famoso teologo cattolico Hans Küng: la rivoluzione culturale operata dall’Illuminismo, senza la quale “si sarebbe continuato a bruciare eretici e torturare persone”. E’ accaduto così che – pur tra mille resistenze e mille conflitti – è nato quello che si può senz’altro chiamare “cristianesimo post-illuministico”, il quale ha avuto la sua massima espressione nel Concilio Vaticano II, energicamente voluto da quel grandissimo Papa laico che fu Giovanni XXIII. Un Concilio che stabilì la netta separazione fra la sfera dello stato e la sfera della chiesa. Una cosa – questa – affatto estranea all’islamismo, nel quale potere temporale e potere spirituale sono fusi e confusi. Donde l’elevazione, in molti paesi del Dar al islam, della sharia a legge di stato. Donde altresì l’accanito rifiuto, da parte degli ulema, di leggere criticamente il Corano. Tant’è che al-Azm fu arrestato per “aver offeso la religione”. Una cosa, oggi, inconcepibile nel mondo cristiano o, più precisamente, concepita solo dalle sette fondamentaliste americane che chiedono l’abbattimento del muro di separazione fra lo Stato e la religione con il dichiarato proposito di condurre una vera e propria guerra santa contro l’islam.
La conclusione cui perviene al-Azm è che, perché sia possibile un dialogo costruttivo fra cristiani e musulmani, è essenziale che la fenomenologia religiosa sia studiata adottando la metodologia scientifica. Ma è esattamente ciò che rifiutano pregiudizialmente i “dottori della Sharia”. E ciò accade a motivo del fatto che nel Dar al islam non c’è stata la rivoluzione illuministica grazie alla quale si è formata quella che Peter Gay ha chiamato “cristianità pagana” centrata sul dialogo permanente fra Atene (la Città secolare) e Gerusalemme (la Città sacra). Quel dialogo – conviene ribadire la cosa – che non potrà esserci fino a quando il virus della cultura laica non avrà contagiato le élite del Dar al islam.
Universalismo individualistico