La politica è una cosa serie
“Making a murderer”, la cronaca su Netflix dell'eterna lotta tra l'uomo e lo stato
Delitti sulle spiagge del lago Michigan, sceriffi ambigui e giurie indecise. Una serie che incolla alla poltrona chi la guarda. Può un documentario essere “una cosa seria”? Senza dubbio, se è prodotto da Netflix e se ha la forza d’incatenare lo spettatore alla poltrona – povera la lingua che non sa dire binge-watching – per dieci ore di deposizioni e memorie processuali.
Può un documentario essere “una cosa seria”? Senza dubbio, se è prodotto da Netflix e se ha la forza d’incatenare lo spettatore alla poltrona – povera la lingua che non sa dire binge-watching – per dieci ore di deposizioni e memorie processuali. Una via di mezzo tra “Shining” e “Un giorno in pretura”, “Making a murderer” è la cronaca della lotta tra un uomo e lo stato. L’uomo è Steven Avery, 53 anni iniquamente divisi tra lo sfasciacarrozze di famiglia e la galera. Lo stato è il Wisconsin, qui rappresentato dalla contea di Manitowoc. Spoiler: vince lo stato.
La saga inizia nel 1985, quando Avery minaccia con una pistola una lontana parente che l’avrebbe calunniato. La donna, si dà il caso, è la moglie di un vice sceriffo. Fast forward. Sei mesi dopo, Penny Beerntsen viene aggredita e stuprata su una spiaggia del lago Michigan. Gregory Allen è il sospettato più ovvio: rispecchia la descrizione della vittima, ha una storia di reati sessuali, ha già colpito sulla stessa spiaggia ed è – per la prima volta da settimane – libero dalla sorveglianza. Ma l’identikit preparato dall’ufficio dello sceriffo somiglia curiosamente a una vecchia foto segnaletica di Avery. La Beerntsen crede di riconoscerlo, Steve viene condannato nonostante un alibi di ferro. Diciott’anni dopo, il responso del Dna: Gregory Allen.
Per Avery è tempo di chiudere i conti: fa causa alla contea, all’ex sceriffo, all’ex procuratore distrettuale. Nessuno gli restituirà gli anni persi, ma un risarcimento multimilionario è un discreto secondo inizio. Sul banco dei testimoni sfilano i protagonisti di ciò che somiglia sempre meno a un errore giudiziario e sempre più a una vendetta privata. Segnatevi un paio di nomi: quelli del sergente Colborn e del tenente Lenk. Mentre la causa civile procede, si perdono le tracce di Teresa Halbach, una fotografa freelance che poco prima della scomparsa ha visitato la tenuta degli Avery per conto di una rivista di annunci. Vent’anni dopo, Steven e lo stato sono ancora l’uno di fronte all’altro.
Per preservare le apparenze, l’inchiesta viene affidata alla confinante contea di Calumet, ma l’ufficio dello sceriffo di Manitowoc non molla la presa. Chi sembra segnalare la presenza dell’auto della Halbach tre giorni prima del ritrovamento ufficiale? Il sergente Colborn. Chi rinviene la chiave dell’auto, in bella vista nella stanza di Avery, già perquisita sei volte? Il tenente Lenk. Invece di dissipare i dubbi, le indagini li alimentano. E il coinvolgimento di Brendan Dassey, il nipote ritardato di Avery, che la polizia e persino i suoi stessi avvocati manipolano per estorcergli una confessione, non fa che complicare il quadro. Perché non ci sono tracce biologiche della Halbach nella stanza in cui, secondo l’accusa, sarebbe stata stuprata e sgozzata? E perché non c’è traccia dello stesso Dassey?
Il dubbio è più che ragionevole, e il conteggio iniziale ne prende atto: 7 “not guilty”, 3 “guilty”, 2 indecisi. Purtroppo non ogni giorno è “Twelve angry men”. Tra presunte intimidazioni, commistioni incestuose – un giurato era il padre di un vice sceriffo, un altro il marito di una dipendente della contea – e contatti impropri tra almeno un giurato e il giudice, matura il verdetto unanime di colpevolezza.
Se Avery (e Dassey) siano colpevoli o meno è, ovviamente, secondario. La vera domanda è se le prove e gli argomenti presentati in aula giustificassero le rispettive condanne. A Stephen Colbert, che chiede loro di sbilanciarsi sul delitto, le autrici di “Making a murderer” rispondono: “Abbiamo documentato il processo; e la giustizia è proprio questo: un processo”. Questo è, ovviamente, vero in senso formale: il processo in senso tecnico è lo strumento d’elezione per dare a ciascuno il suo. Ma è vero anche in un senso sostanziale, almeno in un’ottica liberale: il giusto attiene al come, più che al cosa.
Il primo episodio della serie
La sconfitta di Avery non travolge unicamente la sua esistenza – e quella di un sedicenne indifeso che ha la disgrazia di vivergli accanto – ma anche alcuni pilastri dello stato di diritto: la dignità degli imputati, quando gli inquirenti possono approfittarsi di un ragazzino con deficit cognitivi; la presunzione d’innocenza, quando un procuratore senza scrupoli può avvelenare il pozzo della giuria popolare con il sensazionalismo delle conferenze stampa; il diritto alla difesa, quando la disparità di forze con l’accusa va ben oltre l’asimmetria pur prevista dalla legge; la terzietà del giudice, quando il processo è officiato nella stessa contea che ha già tradito Avery e governato da un giudice che della contea è stato rappresentante.
E’ nel processo penale che la tensione tra stato e individuo emerge in tutta la sua intensità. Ci piace pensarci liberi: ma se anche la nostra libertà avesse una data di scadenza? I pubblici ministeri di “Making a murderer” affermano senza vergogna che la presenza di prove fabbricate “è irrilevante se l’imputato è colpevole” o che “gli innocenti non confessano”. Nei soli Stati Uniti, dal 1989 a oggi, 333 persone ingiustamente condannate sono state scagionate dal test del Dna. In un quarto dei casi, avevano confessato un reato mai commesso. Sarebbe sbagliato ridurre la vicenda di “Making a murderer” a una questione di giustizia sociale: certo, i limiti economici e intellettuali di Avery e Dassey (140 punti di quoziente intellettivo in due) non li hanno favoriti, ma l’abuso giudiziario è un rischio che riguarda tutti. Parafrasando il giudice Marshall, il potere di punire è il potere di distruggere. Andrebbe esercitato con ben altre cautele.