Eliminare la guerra è impossibile, dire che non esiste è un peccato mortale
Guerra. La parola echeggia come il tuono di un cannone, trascina il corpo, lo fa apparire nella sua fisicità, forza, fragilità, caducità, mette la Grande mietitrice, la morte, sul palcoscenico della nostra esistenza con il nome e il ruolo che il destino di volta in volta le assegna. La guerra non è un evento episodico del nostro racconto collettivo, è una persistente presenza, è un intermittente bagliore nel buio, un fatto indelebile della cronaca che si fa storia. Eliminare la parola guerra dal lessico contemporaneo è impossibile, mascherarla un errore, non affrontarla un peccato mortale.
Viviamo un tempo di guerra. La strage di Bruxelles non è un frammento, una scheggia impazzita di un romanzo dove regna la pace. Bruxelles è soltanto l’aggiornamento di un programma di sterminio. E’ Space Invaders che schermata dopo schermata propone al giocatore sempre la stessa minaccia: gli alieni vogliono ucciderti. Chiamare le cose con il proprio nome è il più grande atto di coraggio che la contemporaneità chiede a chi oggi ha responsabilità di governo. Quindici anni fa, l’11 settembre 2001, la storia presentava uno dei suoi turning point, un cambio di direzione, un trauma. Improvvisamente, tutti i fili sciolti della minaccia si riannodavano e il crollo delle Twin Towers rivelava la potenza distruttrice di un nuovo nemico. Sapevamo tutti che quella era una frattura del contemporaneo, ma abbiamo continuato a coltivare l’illusione dell’assenza della guerra, abbiamo inseguito il mito impossibile della pace senza conflitto. Il rosario di date e caduti è là, davanti a noi, un memento che non si cancella con un hashtag su Twitter e la liturgia del lutto che rivela tutta la nostra debolezza interiore: Madrid 2004: 192 morti; Londra 2005: 52 morti; Parigi 2015: 12 morti; Parigi 2015: 130 morti; Bruxelles 2016: 34 morti. E’ il macabro conteggio parziale di uomini, donne e bambini uccisi dal terrorismo islamista dentro i confini dell’Unione europea. Casa. Quattrocentoventi morti in un’area geopolitica dove la parola guerra è stata espunta dal dibattito, quasi la metà (164) è stata falciata da bombe e kalashnikov negli ultimi quattro mesi. Tecnicamente, si chiama escalation del conflitto. Il problema è che l’Europa il conflitto lo ha cancellato, abraso dal suo dizionario politicamente corretto, e quella parola, guerra, è rimasta come un sordo colpo di fucile nelle labbra di chi piange il morto in casa. E’ il lessico molle e appiccicoso dei relativisti senza patria. Solo la Francia, quella parola, non ha più paura di pronunciarla. L’altro ieri il primo ministro Manuel Valls l’ha ripetuta: “Siamo in guerra”. E un uomo mite, François Hollande anche nei gesti s’è trasformato in “presidente di guerra”. E’ la forza dei fatti a plasmarlo. Pensare che questa storia non ci appartenga, che sia un incubo prodotto dalla risposta americana all’11 settembre 2001 è non solo un errore, ma una pericolosa illusione. Bisogna unire i puntini, osservare i fatti, leggerli in controluce, stabilire le connessioni per vedere il disegno finale e accettare questa sfida in cui in palio c’è il bene supremo, la nostra vita.
Unire i puntini. E scoprire che la guerra comincia prima dell’attacco a Manhattan, una sorpresa mortale coltivata e predicata in quello che in queste ore è l’epicentro dell’orrore e dell’errore, a Molenbeek, Belgio. E’ in una delle sue moschee che passa Abdessatar Dahmane, l’assassino del comandante Ahmad Shah Massoud, il capo delle forze antitalebane in Afghanistan, il “leone del Panjshir”. Il 9 Settembre 2001 Massoud, il capo dell’Alleanza del nord, ultimo ostacolo all’avanzata talebana, viene ucciso. Due giorni dopo, sarà l’11 settembre 2001. Due giorni prima, due terroristi suicidi, una falsa intervista, una carica esplosiva piazzata nella telecamera, flash, fine di Massoud. E’ l’accelerazione della long war, la lunga guerra che non vogliamo vedere. Il destino gioca a dadi con le coincidenze, i nomi, le biografie, le città tentacolari. L’inizio è qui, in una moschea di Molenbeek, Belgio, Europa, Vecchio Continente, casa.
Fa impressione scoprire che questa vecchiaia dell’Europa non sia oggi accompagnata dalla saggezza, ma da un paradossale senile oblio dell’esperienza. Un secolo dopo il Primo conflitto mondiale e settant’anni dopo il secondo, dopo milioni di morti e devastazioni, un folletto malefico sembra aver premuto il tasto reset della memoria e cancellato la parola guerra. In cambio di questa sparizione, di questo colpo di spugna, la promessa eterna della vita agiata. Nessuno immagina quanto sia provvisoria, precaria, in bilico questa sospensione dell’intelligenza, questa cloroformizzazione dello stato vigile. E’ uno scambio che avrebbe intrigato Oscar Wilde, il Dorian Gray collettivo dell’Europa, la promessa dell’eterna giovinezza, l’espulsione del sacrificio, in cambio dell’anima. Questo sì, caro Matteo Renzi, che è un problema culturale che ha molto a che fare con la nostra battaglia contro il terrorismo. C’è un meraviglioso libro di George Steiner, intitolato “Nel Castello di Barbablù”, scritto nel 1971, che coglie il significato dello sterminio di massa durante le due guerre, il senso di spaesamento morale e perdita mortale, il depauperamento biologico, la crisi della cultura europea. E il primordiale bisogno di qualcosa che riconduca al passato: “Sono ancora tanti quelli che possono spingersi con la memoria anche molto addietro rispetto alla famosa estate senza nubi del 1914, in un mondo più civile, più sereno e fiducioso, articolato a misura d’uomo più di ogni altro successivamente”. Oggi non sono più in molti a potersi spingere fino a quel ricordo. Oggi domina l’oblio. Quarantacinque anni dopo quei saggi, sembra che l’Europa abbia cancellato tutto e ricordare il passato sia un esercizio lasciato a pochi, considerato fastidioso, ingombrante. Steiner si ispirava al libro di un gigante della cultura europea del Novecento, “Le note per una definizione della cultura” di Thomas Stearns Eliot. Un formidabile saggio declinato in sei capitoli scritti nel 1948 dove si fissano le radici dell’Europa che stava cercando di spostare le macerie della guerra. Che cosa c’era e c’è ancora oggi da proteggere? “L’eredità della Grecia, di Roma e di Israele, e l’eredità dell’Europa negli ultimi duemila anni”. Caro Renzi, cari leader europei, i terroristi puntano a cancellare quell’eredità. E per questo un informato, serio, rigoroso dibattito pubblico sulla natura di questo conflitto, sui rischi e le soluzioni possibili, non può essere edulcorato e mascherato, ridotto al lumicino di candela votiva, processione a capo chino, lutto da social, esibizione della rassegnazione. C’è qualcosa che ruggisce là fuori, è la chiamata della contemporaneità. Guardate con attenzione i video della propaganda di Isis: si riferiscono al mito di Dabiq, la città siriana vicina a Aleppo, dove si svolge la battaglia finale tra il bene e il male. Nella scrittura della tradizione islamica c’è lo scontro tra le legioni romane e “un esercito da Medina” e infine la conquista di Costantinopoli. Isis attualizza la profezia, manipola il testo apocalittico, sostituisce i romani con gli occidentali e Costantinopoli con Roma. E’ un messaggio di morte ben più sofisticato di quanto si immagini, esercita un fascino, un’attrazione verso la moltitudine jihadista. E’ una calamita lanciata sul campo di battaglia. Quella contro il terrorismo islamista è una guerra totale, un Risiko reale dove l’ormai ineludibile strategia militare si intreccia con la conquista del cuore e della mente dei popoli. Sulla rivista Oasis nei mesi scorsi sono stati pubblicati contributi preziosi per comprendere l’importanza di questo messaggio: “Lo Stato islamico si muove su un duplice piano: di razionalità strumentale, tesa alla creazione di una compagine statale, e di irrazionalità, protesa alla dimensione simbolica e a volte schiettamente apocalittica”. L’aspirazione escatologica, il religioso e l’aspetto geopolitico (e militare) sono paralleli e inscindibili.
E’ possibile ignorare tutto questo dopo le stragi di Parigi e Bruxelles? E’ saggio fare finta che la guerra alle porte del nostro immenso confine sul Mare nostrum, in Libia, sia una minaccia lontana? La realtà è che c’è oggi più che mai un disperato bisogno di leader che fanno lo sforzo di leggere (sì, leggere) lo scenario del presente e riconoscere la guerra in corso. Ci sono fatti ineludibili che noi europei dobbiamo guardare con grande apprensione e senso dell’urgenza. La nostra crisi demografica è un fattore d’instabilità che condiziona tutto il pensiero strategico sul futuro della guerra e, dunque, della pace che tanto diciamo di amare. La superiorità tecnologica nella guerra contemporanea da sola non basta. Arriva un momento che si chiama boots on the ground. Chi va a combattere? E’ questa la ragione del disastro militare in Libia, delle drammatiche e sanguinose campagne in Iraq e Afghanistan, dell’inferno a cielo aperto in Siria. Sono teatri dove si muore. Pensare di lasciare che la carneficina prosegua, immaginare un mondo regolato dallo stop and go obamiano e sperare così di essere salvi dal terrorismo è una mortale illusione. L’età media dei 370 milioni di arabi del pianeta è di soli 24 anni. Sono numeri che gli strateghi conoscono bene e mettono sotto una sigla: ready to fight. Pronti a combattere. In dicembre il Soufan Group ha pubblicato un dettagliato studio sui foreign fighter in Siria, il quadro che ne esce per l’Europa è terrificante. I combattenti stranieri in Siria dalla metà del 2014 a oggi sono raddoppiati, oggi sono oltre trentamila e provengono da 86 paesi. Sono per la maggior parte maschi, di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Giovanissimi e determinati a combattere. Una parte di loro, tra il 20 e il 30 per cento, lascia la Siria e torna in patria. E’ un dato che fa correre i brividi lungo la schiena. Addestrati sul campo di battaglia, scaltri, silenziosi, ignorati completamente dall’intelligence, possono colpire quando vogliono. Con queste premesse, le stragi di Parigi e Bruxelles sono soltanto l’esordio di una generazione di miliziani di Isis catapultata in Europa.
Chiamare le cose con il loro nome è fondamentale per vincere contro il terrorismo. Depennare la parola guerra dal discorso pubblico non sposta di un millimetro il problema. La leadership oggi si esercita con la lingua della verità. Tony Blair ha elencato le cose da fare con lucidità, senza maquillage, sul Corriere della Sera: “Dobbiamo migliorare radicalmente lo scambio di informazioni tra le intelligence europee (…) risolvere i conflitti che sono all’origine del fenomeno terrorista: dobbiamo combattere Daesh ovunque si manifesti, in Siria, in Iraq o in Libia, esser preparati a compiere le azioni necessarie per sconfiggerli (…) costruire le giuste alleanze dentro il mondo islamico (…) lanciare quella che io chiamo un’azione globale sull’educazione”. Ecco, quest’ultima parola, “educazione” non va confusa con “lo svago”, evasione dalla realtà. E’ consapevolezza di sé e degli altri, distinzione tra il bene e il male, l’amico e il nemico. E’ chiamare le cose con il proprio nome, avere un senso della propria esistenza e della storia. E ancora una volta, quella memoria, quella cultura che viene citata dai governanti (confusa maldestramente con l’entertainment e non con il sapere, la distrazione e non la consapevolezza), quella straordinaria storia della nostra Europa, offre una testimonianza, un modo possibile di interpretare la realtà, una via da percorrere senza avere paura. Nella bella biografia di Winston Churchill scritta dal sindaco di Londra Boris Johnson (“The Churchill Factor”) è citato un episodio mirabile sul significato della leadership in tempo di guerra. Churchill combatteva corpo a corpo contro Hitler, uno scontro fatto di uomini, acciaio e parole. Un conflitto fatto di anima, di popolo, di morale, di verità e menzogna. Bisognava sopravvivere alle grandi privazioni della guerra, ai bombardamenti, alla fine che ogni giorno si manifestava con l’elenco dei caduti sul fronte. Churchill aveva un coraggio da leone, provato in battaglia, e una forza d’animo da campione della libertà. Un giorno chiamò il capitano Talbot e gli disse: “In questa guerra ci sono due persone che affondano gli U-Bot, Talbot. Lei affonda i sommergibili nell’Atlantico, io li affondo nella Camera dei Comuni. Il problema è che quelli che affonda lei sono esattamente la metà di quelli che affondo io”. Churchill combatteva su due fronti: il primo era sul suolo dell’Europa e nell’oceano Atlantico, il secondo era nell’isola d’Inghilterra, per sostenere il coraggio e la speranza del suo popolo. Dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, i leader europei si ritrovarono a marciare sulle strade di Parigi. Ma nei loro sguardi si leggeva una sola cosa: la paura. E i terroristi hanno continuato la mattanza dentro i confini dell’Unione. L’Europa, casa nostra, oggi ha bisogno più che mai di uomini forgiati nell’acciaio e dal cuore grande. Senza, perderemo questa guerra.