Malaticcio e deperito, l'italiano è sempre più un dialetto domestico
Viviamo da anni in una condizione di tendenziale e crescente bilinguismo. Ciò che più conta per tutto quanto ha a che fare con l’abc del mondo contemporaneo e con le decisioni che toccano la vita di tutti, è sempre più espresso in inglese. L’italiano sembra diventato un dialetto domestico, un debole idioma che circola prevalentemente nella vita familiare e privata. Tecnologie d’avanguardia, economia e finanza, politica e geopolitica si nominano in inglese. Anche l’ esperienza privata risulta più “glamorous” se espressa in inglese. Un “mood” piace, uno “stato d’animo” deprime.
A questo punto, occuparsi di lingua italiana, registrare o “testare” il suo stato di salute ci fa sentire membri di una marginale, inferiorizzata, folclorica tribù di cui è più facile vergognarsi che essere fieri. Si assume tuttavia questo compito poco allegro l’ultimo numero di “Nuovi Argomenti” (gennaio-marzo 2016), la gloriosa e longeva rivista attualmente diretta da Raffaele La Capria, Furio Colombo, Dacia Maraini, Giorgio Van Straten, Raffaele Manica, Arnaldo Colasanti. E’ un fascicolo da cui si ricavano una quantità di cose. Apre Tullio De Mauro con un diario linguistico-politico che copre mezzo secolo, dal 1965 a oggi, da cui si può ricavare, salomonicamente, che in sostanza, negli anni Sessanta, ebbero entrambi ragione due scrittori in polemica come Pasolini e Calvino. Mentre Pasolini denunciava il declino dei dialetti, l’omologazione tecnocratica e la perdita di espressività della lingua, Calvino diceva che il vero problema era un altro: era la comparsa di una specie di “antilingua” astrattamente e goffamente burocratica, usando la quale si cancellavano le cose e gli atti reali, una lingua allusivamente autorevole, da verbale di polizia, incapace di concretezza e di precisione. Ciò che poi continua a rallegrare lo studioso De Mauro è che ormai la ricerca possa contare su potenti mezzi di rilevazione quantitativa via computer.
Io però non credo che i progressi tecnici della scienza procurino grandi soddisfazioni quando l’oggetto di studio, in questo caso l’italiano, è piuttosto malaticcio e deperito, o (verosimilmente) inguaribile. Il lessico italiano si sta impoverendo, è in declino e in ritirata, mentre la sintassi (compresa quella del presente articolo) è piuttosto elementare. Ma anche se il linguista analizzasse la prosa di stimatissimi autori quali Eco e Citati, troverebbe che la loro lingua non è particolarmente varia e vivace, né sapientemente costruita, ma a volte troppo semplificata, se non corriva. A me il punto e virgola non piace e lo evito di proposito. Ma ricordo che tempo fa, in un articolo in cui Citati indicava come segno di barbarie il declino del punto e virgola, non c’era neppure un punto e virgola, sostituito, anche impropriamente, dai due punti. Che la prosa italiana si normalizzi e si semplifichi, si avvicini al parlato a volte anche troppo, o manieristicamente ecceda in velleità neoletterarie che mimano gerghi inverosimili, credo sia un bene comunque. Purché la comunicatività venga accentuata e non ostacolata.
Oltre a una riflessione interessante e attuale di Van Straten sulla mancanza di una lingua necesaria per raccontare dall’interno la politica e il potere, due dei saggi più complessi, poco meno che acrobatici del numero, riguardano appunto la prosa: uno è di Emanuele Trevi e uno di Raffaele Manica.
Il primo riprende un problema che politicamente preoccupò Leopardi quando si dedicava alla sua “Crestomazia” o antologia della nostra prosa d’arte. Per pensare con energia e chiarezza, secondo Leopardi gli italiani avevano bisogno di ottimi modelli di prosa che permettessero di parlare sia di politica e di economia che dei “costumi” privati e pubblici. Trevi qui si concentra su un problema formale e tecnico: sull’importanza delle misure ritmiche in prosa. Consiglia di prestare orecchio all’endecasillabo che abita e nuota nella prosa, poichè “scrivere bene in italiano è la conseguenza di una complicata, sfibrante iniziazione” necessaria a combattere “quell’inerzia naturale della prosa italiana che minaccia ogni scrivente.
Manica discute il commento di Maria Antonietta Terzoli al “Pasticciaccio” di Gadda. Ma questo per lui sembra soprattutto il pretesto per scrivere un fitto e denso saggio sul prosatore italiano del Novecento più entusiasmante o più esasperante, il quale racconta e non vuole raccontare, preferisce meditare, descrivere e sfogarsi. A questo punto Manica, per venire a capo di tali complessità che evidentemente lo appassionano, diventa a sua volta prosatore di estri analitici e ritmici degni a loro volta di analisi…