Zaha Hadid (foto LaPresse)

Addio a Zaha Hadid, prima e ultima regina delle archistar mondiali

Michele Masneri
E’ morta la prima e ultima regina dell’architettura. Se n’è andata Zaha Hadid, virago di un’epoca d’archistar ormai forse finita per sempre, che l’aveva consacrata suo volto globale.

Roma. E’ morta la prima e ultima regina dell’architettura. Se n’è andata Zaha Hadid, virago di un’epoca d’archistar ormai forse finita per sempre, che l’aveva consacrata suo volto globale. Era figlia di una principessa sunnita e di un ministro iracheno pre-Saddam, Hadid, e di una regina conservava lo status e il tono adeguato al suo rango. E’ morta a sessantacinque anni, per infarto conseguente a una bronchite, e forse in perfetto tempismo coi tempi, in un’epoca in cui per mancanza di quattrini le archistar sono un poco tramontate, e forse hanno un poco anche stufato. Lei era l’unica femmina di questo circo mondiale e incarnava, secondo la dizione della Treccani, quella genia di “architetto molto famoso, conscio di essere, come i divi dello spettacolo, al centro dell’attenzione pubblica per la sua capacità di far discutere e di sorprendere con i propri progetti e le proprie opere”. Aveva fatto opere famose col suo uso del cemento e di linee curve e muscolari e talvolta inservibili, ma era riuscita a entrare nel ristretto giro degli architetti – tutti maschi – che contano: i Norman Foster, i Frank Gehry, gli Herzog e de Meuron, i Renzo Piano. Tutti maschi, appunto, tranne lei, che venuta dall’Iraq non proletario senza complessi si era laureata prima in matematica e poi in architettura, e come una Laura Betti islamica della costruzione imperversava su committenti e soprattutto collaboratori (leggendarie le urla, più che le opere). La consacrazione era arrivata nel 2004 col Pritzker prize, il massimo premio del settore, prima donna a riceverlo, e poi aveva disseminato il pianeta dei suoi mammozzoni ricurvi. Il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra, la Guangzhou Opera House in Cina, le palazzine aspirazionali di Citylife a Milano; architetture tutte simili e spesso senza alcun nesso col contesto, come vuole la liturgia dell’archistar déraciné. Ha avuto anche lei i suoi problemi: il 22 aprile avrebbe dovuto essere a Salerno con De Luca a inaugurare la stazione marittima rinviata di anni, mentre il suo progetto per lo stadio di Tokyo, molto simile a uno di quei grandi aspirapolvere di ultima generazione che si attivano da soli, valore 2,5 miliardi, le è stato ritirato.

 

Era una grande comunicatrice, sicuramente, con bizzarrie forse necessarie a imporsi in un mondo ostile. “Odiava le scale, e il protocollo delle sue inaugurazioni veniva modificato per non farle percorrere salite a piedi”, dice al Foglio Marco Sammicheli, design curator della rivista Abitare, che realizzò un saggio intitolato “Being Zaha Hadid”. All’inaugurazione trionfale del romano museo Maxxi “rimase a lungo chiusa nella macchina blindata coi vetri oscurati, con l’allora ministro dei beni culturali Sandro Bondi che la pregava di scendere”, racconta Sammicheli, offesa perché a sua insaputa era stato issato un enorme scheletro di 24 metri di Gino De Dominicis, iettatorio a suo dire.

 

Laica, pur avendo fatto le scuole cattoliche a Baghdad, “amava Roma, le architetture barocche di Bernini e quelle sportive di Nervi, e il palazzetto dello sport vicino al Maxxi”, e sarebbe forse oggi felice della coincidenza, visto che il suo museo ospita una mostra dedicata al grande maestro strutturalista. Non amava invece, sempre tra i vicini di casa, Renzo Piano, e davanti all’Auditorium appena ultimato qualcuno ricorda che disse: “troppi mattoni, troppo rosso, troppo legno”. “Disegnava solo a mano, odiava il computer, e presentava i suoi progetti dipingendo su tela”, dice Sammicheli; “come nella sua tesi di laurea intitolata Malevic-Tectonic, un progetto realizzato come un dipinto del formalista russo”. In fondo non era solo un’archistar come tante, era la regina.

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