Schultz, il moralizzatore al frappuccino che vuole cambiare l'America perché non assomiglia al suo Starbucks
New York. Sono anni che l’amministratore delegato di Starbucks, Howard Schultz, sollecita l’avvento di un mondo più giusto e pulito con sermoni agli azionisti, editoriali pensosi, ballon d’essai su eventuali corse alla Casa Bianca, iniziative politicamente correttissime per migliorare il mondo. Ha scritto libri e fatto prediche, ha fatto digressioni su Martin Luther King e sul suo rabbino di riferimento durante gli incontri con gli azionisti, ha chiesto ai clienti di non entrare con le pistole. Quando il Congresso litigava furiosamente sull’ennesima crisi fiscale ha fatto scrivere sulle tazze “come together”, per dare un segnale. Indimenticabile quella volta in cui voleva convincere i baristi a lanciare conversazioni distensive sul tema razziale ai clienti che aspettavano il chai latte con panna montata. La trovata è naufragata ancora prima di cominciare.
Tutte le divisioni del presente momento politico e sociale dell’America, incarnate dal fare rabbioso e dai modi crassi di Donald Trump, hanno portato la coscienza di Schultz a un più alto livello d’allerta, e qualche giorno fa ha spiegato agli azionisti che per settimane ha “faticato nel trovare le parole giuste” per spiegare la profonda preoccupazione che sente dentro. Le parole introvabili di Schultz sono state introdotte da un video ad alto tasso emotivo in cui tutte le crisi d’America vengono arrotolate in un unico burrito: l’acqua avvelenata di Flint, gli immigrati al confine, i veterani lasciati soli, la disoccupazione, gli homeless, le tensioni razziali, la battaglia fra pro life e pro choice, le violenze della polizia, le divisioni all’interno dei partiti. Sullo schermo scorrevano domande ineludibili, tipo: “Dov’è finito il nostro senso della moralità, America?”. Schultz ha ammesso che “ci sono momenti in cui fatico a riconoscere chi siamo e cosa stiamo diventando”, ha spiegato che quel “bacino” che è il sogno americano, costantemente riempito dai “valori, dall’etica del lavoro e dallo spirito del popolo” oggi “si sta prosciugando, per via del cinismo, della disperazione, delle divisioni, dell’esclusione, della paura e, sì, dell’indifferenza”. Sono lontani i tempi in cui lui, bambino di Brooklyn, andava insieme alla madre a sentire i comizi di John Fitzgerald Kennedy e ad ogni parola di quel giovane candidato la mano di lei stringeva sempre più forte la mano di lui, in un irresistibile crescendo emotivo. E’ da allora che Schultz si dedica alla cura e al restauro del sogno americano, non con un progetto politico ma con un’azienda che infonde ottimismo dove c’è cinismo, che mette la possibilità al posto della disperazione, che acquista pagine pubblicitarie sul New York Times e Wall Street Journal dove espone due colonne di valori contrapposti e in eterno conflitto per avvertire il popolo americano che la colonna nera sta prendendo il sopravvento su quella bianca.
Non è un problema che riguarda soltanto “le decisioni che prendiamo ogni quattro anni, ma quelle che prendiamo ogni giorno”, e così Schultz, moralizzatore al frappuccino, non si riconosce più in quest’America trumpiana e sandersiana, populista e rivoluzionaria, intimamente demagogica, perché non rispecchia i valori che lui ha infuso giorno dopo giorno nel suo impero del caffè: la prevedibilità, la correttezza politica, la replicabilità di prodotti mediocri e sicuri, i costi contenuti per bevande e cibi che infallibilmente mantengono quel poco che promettono, ma sono nondimeno serviti dentro la tazza retorica della sostenibilità, avvolti nella carta equosolidale della responsabilità sociale. Sono valori liofilizzati e take away. Si capisce allora la profondità della preoccupazione di Schultz: l’America di oggi non è fatta a immagine e somiglianza di Starbucks.