La politica è una cosa serie
"Scandal", ossia Beautiful ambientato alla Casa Bianca
L’ultimo numero di Bloomberg Businessweek si apre con la confessione di Andrés Sepúlveda, lo smanettone colombiano che, per dieci anni o giù di lì, avrebbe truccato elezioni in mezza America Latina. Sepúlveda mette sul tavolo tutta l’attrezzatura: intercettazioni, manipolazioni, campagne diffamatorie sui social. È il genere di rivelazioni che può stroncare una tenera coscienza democratica. Un rischio che non corrono gli spettatori di “Scandal”, temprati dalla penna inesauribile di Shonda Rhimes – la monopolista del giovedì sera americano.
Secondo un vecchio adagio della politica statunitense, Washigton è la Hollywood dei brutti. Shonda ha risolto il problema. Nello studio ovale, un presidente dolentissimo e molto infoiato: il repubblicano svagato Fitzgerald Grant, Fitz per gli amici (e le amiche). Nell’ala est, una first lady petulante ma ancora passabile, se vi fidate del giudizio del vice presidente Nichols. Tra loro, l’ex direttrice delle comunicazioni di Grant, Olivia Pope – liberamente ispirata a Judy Smith, addetta stampa di Bush senior. E, sulle sue tracce, un accattivante militare, Jake Ballard.
Con queste premesse, il teatrino della politica diventa un blockbuster. “Beautiful” alla Casa bianca. E, proprio come nel mondo dei Forrester, anche in quello di Olivia tutti non fanno che accoppiarsi e accopparsi – talora le due cose insieme – in un’estenuante quadriglia.
Qui dovrei inserire premurosamente un avvertimento: attenzione, seguono spoiler. Ma in “Scandal” il vero colpo di scena è la noia. Un’elezione rubata manomettendo gli apparecchi per il voto elettronico? Celo. Un futuro presidente che abbatte un aereo di linea? Celo. Un futura first lady stuprata dal suocero? Celo. Un divorzio alla Casa bianca? Celo. Una nuova fidanzata alla Casa bianca? Celo. Il sex tape della first daughter? Celo. L’attentato al presidente? Celo – che banalità. L’attentato al presidente organizzato dal vice presidente ed ex migliore amico che gli riscalda la moglie? Celo. Un rapimento? Celo. Un rapimento filmato in studio e concluso con la vendita all’asta dell’amante del presidente sul dark web? Celo. Una vice presidentessa della destra religiosa che si dimette dopo aver accoltellato il marito segretamente omosessuale? Celo. Un servizio segreto così segreto che neppure il presidente ne conosce l’esistenza? Celo. Un servizio segreto così segreto da uccidere il figlio del presidente? Celo. Un capo di gabinetto apertamente gay, con tanto di marito e figlia adottiva? Celo. Un capo di gabinetto (ormai vedovo) che sposa il gigolo inviatogli da un’avversaria politica per estorcergli informazioni sensibili? Celo.
Per spezzare la tensione, “Scandal” non disdegna le incursioni nell’attualità: attraverso i fatti di Ferguson, con l’omicidio di un ragazzino afroamericano per mano di un agente di polizia, o attraverso le primarie repubblicane, con un candidato ricalcato su Trump – anche se cuoce il bacon sulla canna della mitraglietta come Ted Cruz. Ma sono ammiccamenti effimeri, all’interno di un racconto che non ha alcun interesse per la verosimiglianza.
Se in "House of Cards" le forzature servivano a rimarcare ciò che sappiamo del gioco politico, qui l’assoluta licenza creativa ha l’effetto opposto: sottolineare la nostra radicale ignoranza rispetto alle meccaniche concrete del potere. Non c’è nessun servizio segreto parallelo a “proteggere la repubblica” da se stessa; ma, se ci fosse, noi non lo sapremmo. Tanto vale credere nella democrazia, sembra dire “Scandal”, alla maniera di Pascal: se esiste, ne saremo stati parte; altrimenti, ne avremo almeno assaporato l’illusione. Questo perché lo stato, quello democratico in particolare, è una formidabile macchina scenica. Il potere – ed è l’altra lezione di “Scandal” – è percezione: la politica è uno spettacolo per cui non paghiamo il biglietto, a parte il fatto che lo paghiamo. Ce lo insegna Olivia: quando non si ubriaca con Fitz o non si ubriaca con Jake o non si ubriaca con uno sconosciuto che poi si rivelerà un agente segreto o non si ubriaca da sola, passa il tempo a rimodellare la realtà a beneficio dei propri clienti. La verità – a Washington più che altrove – si produce, non si registra. Per ricordarcelo, tra una scena e l’altra, Shonda fa scattare l’otturatore di una fotocamera: noi non possiamo trattenerci, dobbiamo sbirciare – ma è tutta l’autenticità a cui possiamo aspirare.