Slow Food. Cattivo, sporco e sbagliato
Forse non tutti lo sanno, ma Slow Food, proprio come il Futurismo, è nata attorno a un manifesto. Tra l’altro i due manifesti si assomigliano molto, benché a segno invertito: mentre il primo inneggiava alla velocità alla modernità all’industria, il secondo esalta la lentezza, le tradizioni e la ruralità. Certo però che, per essere nata come un’avanguardia, sia pure attenta alla concretezza, SlowFood ne ha fatta di strada; come nota orgoglioso il suo patron, Carlo Petrini, nel rieditare (dopo 11 anni) “Buono, pulito e giusto”.
Carlo Petrini, sociologo, gastronomo e scrittore italiano, fondatore della socisazione "Slow Food"
Quando apparve la prima volta, si trattava di un libro che, per la sua stessa oltranza, per la sua chiassosa presunzione, riusciva provocatorio e irritante. Sorprendentemente, la nuova edizione appare imborghesita; non fosse per le autocelebrazioni e le smargiassate – Petrini che dà direttive all’Organizzazione mondiale del commercio e alla Banca mondiale, che spiega a scienziati e commercianti come fare il loro lavoro, che butta là di aver scritto un libro a quattro mani con Sepúlveda – parrebbe quasi un libro malinconico, crepuscolare.
Qualche errore è stato persino corretto. Petrini si è finalmente accorto che i “food miles” non sono una misura adeguata di quanto gli alimenti incidano sull’ambiente; inoltre ha notato gli aspetti più beceri e razzisti del suo elogio delle tradizioni e delle piccole patrie, e così ha pensato bene di aggiungere un inno agli immigrati che coltivano e cucinano i nostri prodotti tipici. Purtroppo, in quasi tutti gli altri casi, è rimasto fermo ai pregiudizi di sempre. La pagina sugli Organismi geneticamente modificati (Ogm), per esempio, è inalterata, eppure, se già era difficile nel 2005 sostenere sul serio che la loro innocuità “non è completamente dimostrata”, oggi fa solo ridere. E rattrista che Petrini continui a prestar fede a personaggi screditati come Percy Schmeiser o Vandana Shiva, o a bufale notorie come quella sui suicidi degli agricoltori indiani.
Come prima, il libro ci parla soprattutto di fantasie: di una agricoltura che sarebbe diventata “innaturale” solo dopo gli anni Cinquanta; di una “agroindustria” che avrebbe inquinato e desertificato la terra e ridotto la biodiversità; di una cucina contadina buona e sana, e di pasti contadini in lieta compagnia; del fast food che sarebbe comparso improvvisamente nel Secondo dopoguerra.
Propone categorie economiche storicamente superate (il prezzo “giusto” oppure la logica del “dono” e della “gratuità”) che vorrebbe recuperare costruendo fumose “comunità di coproduzione” in cui i contadini si ritroverebbero continuamente tra i piedi chiacchieroni che, come lo stesso Petrini, non sanno né zappare né cucinare, ma in compenso pretendono di condividere la vita dei contadini. Protesta senza motivo contro gli alimenti fuori stagione; esige che i commercianti smettano di perseguire il profitto, che si riduca l’intermediazione, e che il cibo viaggi “quanto meno possibile” - ma mica sempre, sia chiaro, perché il Barolo e il cappone di Morozzo devono poter arrivare in tutto il mondo. E si sente libero non solo di blaterare di una presunta superscienza (la gastronomia, che abbraccerebbe in sé tutte le scienze – anche se poi le scienze vere, e persino la cultura scritta, in Petrini suscitano solo diffidenza) ma di pretendere addirittura una “educazione al cibo” permanente per tutti e per tutte le età: una specie di polizia alimentare.
Insomma, il libro è ancora pieno di assurdità. E del resto, come stupirsi? Slow Food è costruita su un coacervo di errori: correggerne alcuni farebbe crollare tutto l’edificio. Se poi ci aggiungiamo lo stile maestoso di Petrini, l’effetto non può che essere comico. Basti pensare all’episodio dei peperoni quadrati di Asti: rattristato per la scomparsa di quei “magnifici ortaggi” con cui un tempo si preparava un’ottima peperonata, il Nostro si imbatte in campi coperti di teloni e chiede al contadino se per caso vi si coltivino peperoni. “Mi disse in dialetto: ‘Non conviene, gli olandesi costano meno e nessuno ce li compra più, i nostri! Danno lavoro ed è tutta fatica buttata al vento!’. ‘Ma allora – replicai – cosa coltivate ora?’. Sorrise: ‘Facciamo crescere bulbi di tulipano! Poi li spediamo in Olanda per farli fiorire! Sobbalzai. Toccavo con mano i paradossi dell’agroindustria combinata con la cosiddetta globalizzazione: peperoni che valicano confini e attraversano monti in cambio di tulipani; prodotti simbolo di due territori coltivati a più di mille chilometri di distanza l’uno dall’altro, a stravolgere due consuetudini agricole che li hanno resi tipici e, evidentemente, ben inseriti negli ecosistemi originali; una varietà di peperoni meravigliosa in via di estinzione; una ricetta tradizionale completamente snaturata; chissà quanto inquinamento. (…) Per me quel giorno fu la data d’inizio ufficiale dell’ecogastronomia; la materia prima dev’essere coltivata e prodotta in maniera sostenibile, la biodiversità e le tradizioni alimentari e produttive locali vanno salvaguardate a tutti i costi”.
Peperoni quadrati d'Asti
Petrini è sempre pronto a partire lancia in resta in difesa di tradizioni e di ecosistemi; non ha mai dubbi, neanche quando dovrebbe. E’ mai esistito un “ecosistema originale”, visto che i peperoni (una varietà americana) e i tulipani (originari del Caucaso) sono arrivati in Europa solo nel XVI secolo? Perché introdurre una nuova coltivazione oggi sarebbe un “paradosso” mentre andava benissimo nel passato? Vuoi vedere che, se Slow Food fosse esistita nel Cinquecento, avrebbe impedito, tra le molte altre cose, anche la nascita della peperonata che Petrini tanto rimpiange? In realtà, le posizioni di Petrini sono irrimediabilmente contraddittorie. Accusa l’agricoltura contemporanea di non saper sfamare l’umanità, ma auspica il ritorno a un’agricoltura “tradizionale” (dai contorni peraltro vaghi) che sarebbe meno produttiva, quindi sfamerebbe ancor meno persone; rimprovera all’agricoltura moderna di consumare troppa terra, così distruggendo la biodiversità, ma invoca tecniche che deforesterebbero ancora di più. Crede che la produzione non abbia nulla a che fare col reddito, e che dunque la lotta alla povertà sia solo questione di distribuzione, ma contemporaneamente imputa all’agricoltura contemporanea di non produrre abbastanza; proclama un “nuovo” modello di sviluppo che però – in quanto presuppone dei consumatori ricchi – non solo non è affatto alternativo al modello di sviluppo presente, ma lo presuppone esattamente com’è, e anzi non potrebbe sussistere nemmeno un minuto senza di esso…
Dicevamo dei toni crepuscolari. Nel Poscritto Petrini, dopo aver notato compiaciuto che il suo slogan (buono, pulito e giusto) ha riscosso grande successo, osserva altresì che di esso, così come di altre istanze di Slow Food, si è appropriato il Sistema: “E’ diventato molto abile a cogliere i segnali e i desideri di cambiamento e a fingere di soddisfarli. Ha confuso il suo linguaggio con il nostro (…) le sue narrazioni con le nostre (…) e intanto il sistema delle regole fa quadrato intorno ai profitti, intorno ai grandi capitali”. E’ il tipico rammarico della controcultura: si crede di sovvertire il Sistema cambiando i gusti, gli stili di vita, l’arte, le mode, per poi scoprire che di queste innovazioni approfitta l’industria. E’ successo ai capelli lunghi, alla marijuana, alle minigonne, al rock, al punk, al bikini, al postmoderno: adesso tocca al bio, all’organico, e anche allo slow food. Tutti a stupirsi, o a indignarsi, per la capacità del Sistema di assimilare le sovversioni (e i sovversivi), e nessuno mai che si faccia l’unica domanda sensata: ma com’è che, dopo tutte queste presunte sovversioni, il Sistema continua come prima e meglio di prima? Non sarà che la “sovversione” non sovverte un bel nulla, ma serve solo a creare nuovi mercati? Purtroppo per Petrini, non è con le mode e gli stili di consumo che si cambia il mondo. Per farlo, serve la politica. E’ meno cool, non dà il brivido della conversione, ed è anche molto più faticosa: ma non c’è altro modo.