Chi è Go Nagai, il fumettista che ha aperto la porta dell'estremo oriente
I bambini di fine anni Settanta sono stati come i Maya di “Apocalypto”, il film di Mel Gibson, testimoni di uno choc culturale. Sono arrivati non i Conquistadores spagnoli, ma i cartoni animati giapponesi, che in seguito avremmo imparato a chiamare anime, hanno sconvolto il nostro immaginario. E la porta di questo oriente affascinante e misterioso sono stati i robot di Go Nagai, da Goldrake a Mazinga Z, dal Grande Mazinga a Jeeg. Go Nagai, classe 1945, il leggendario mangaka (fumettista) giapponese che ha cambiato la stessa percezione dell'anime è stato ospite d’onore a Romics, la fiera romana del fumetto, dove è stato premiato con il Romics d’oro.
La prima serie animata tratta da un suo manga (fumetto) ad arrivare in Italia è stata “Ufo Robot Goldrake”, lo storico 4 aprile del 1978. E il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Il protagonista, Duke Fleed (Actarus da noi), è un alieno rifugiato sulla terra che combatte i robot mandati dal malvagio re Vega che, dopo aver distrutto il pianeta di Fleed, vuole anche il nostro. L’unica speranza della terra è il robot guidato da Actarus, Goldrake. Per chi scrive, della prima generazione robotica, l’incontro con un mondo di meravigliosa violenza, di azione, anche più drammatico di quello dei fumetti di Tex, Zagor e Mister No, che si sfogliavano e basta perché non si sapeva ancora leggere, fu quasi normale.
Il Goldrake di Alessio Caraturo
Per chi era un po’ più vecchio, si trattò di un autentico choc culturale. “Non siamo più quei bambini ingenui cresciuti a colpi di Bambi nei testicoli, ma apriamo gli occhi sul meraviglioso mondo della violenza a lame rotanti”, ha osservato il fumettista Leo Ortolani, classe 1967, creatore del supereroe-antieroe Rat-Man che ha omaggiato gli anime (e i manga) nella storia “Il grande Ratzinga”. Goldrake e gli altri robot di Go Nagai, come il Grande Mazinga, Mazinga Z e Jeeg, sono robot giganti che combattono altri robottoni giganti. Il massimo per un bambino di qualunque età. “Le prime due serie di Goldrake le segue anche mio padre, uomo di irreprensibile moralità e sobriamente severo, ma pur sempre colui che ha introdotto i fumetti in casa nostra fin da quando eravamo bambini informi, per cui comunque, nel suo intimo, aperto alle cose meravigliose”, ha ricordato Ortolani in un suo lungo articolo del 2014 (che citiamo con il suo placet) sulla ristampa de “Il grande Ratzinga”.
Il nome del robot in originale è Grendizer, in italiano è Goldrake, la serie in Italia si chiama “Atlas Ufo Robot”. Perché quell’Atlas? Come ha acutamente osservato Ortolani, “quell’Atlas viene dal fascicolo francese che illustra le caratteristiche tecniche della serie e quindi si legge ‘Bibbia della serie Ufo Robot’, per cui, grazie all’ignoranza di qualche dipendente Rai, adesso tutti continuiamo a chiamarla Bibbia Ufo Robot”.
Ma la Rai è punita: grazie al successo della “Bibbia Ufo Robot”, le neonate reti private si buttarono a pesce sui cartoni giapponesi che contribuirono a spingere gli spettatori più giovani a tradire la tv pubblica.
La sigla originale di Goldrake
Per chi era appena entrato nell’adolescenza, l’impatto fu per certi versi più sconvolgente, perché era già in parte formato.
“Fino a quel momento i cartoni animati in televisione erano quelli di Hanna & Barbera, semplici e ripetitivi”, racconta al Foglio Antonio Serra, classe 1963, sceneggiatore di fumetti (creatore con Michele Medda e Bepi Vigna del personaggio fantascientifico di Nathan Never) e redattore della Sergio Bonelli Editore di Tex e Dylan Dog. “Quando ho visto il primo episodio di Goldrake sono rimasto allibito perché ho osservato che c’erano ritmo, regia, montaggio, inquadrature, che i personaggi si muovevano in maniera dinamica, animazioni che adesso ci paiono semplificate ma che all’epoca, rispetto a quelle alle quali eravamo abituati, erano un'evoluzione incredibile. Ma trovavo impensabile che nascessero dal nulla", continua Serra, "non poteva non esserci stato qualcosa prima, era chiaro che i giapponesi erano un mistero da svelare e all’epoca non c’era internet, il Giappone era davvero un altro mondo. Non c’erano nemmeno i computer o, meglio, c’erano, ma erano enormi e nessuno ne aveva in casa uno.”
Presto Serra si rende conto che se tanti si lamentavano perché i personaggi in molti cartoni erano tutti uguali, era perché erano gli stessi personaggi, con i nomi cambiati. “Goldrake, Mazinga Z, il Grande Mazinga e Jeeg erano di qualcuno (Go Nagai), le differenze stilistiche erano evidenti, mentre Capitan Harlock e il Galaxy Express erano di qualcun altro (Leijii Matsumoto) eccetera, c’erano mille sfumature”. Per Serra, però, lo choc culturale arrivò davvero solo qualche anno dopo, a metà anni Ottanta, quando lavorava già per la Bonelli.
La sigla di Jeeg Robot
Alfredo Castelli, sceneggiatore e critico fumettistico, creatore del personaggio di Martin Mystère per la Bonelli (ancora oggi pubblicato) aveva curato un numero speciale sul Giappone per la rivista “Eureka” e per farlo era andato nel lontano oriente con il critico Gianni Bono. Serra va a casa sua e scopre la sua vasta collezione di manga, acquistati in Giappone. All’epoca i manga non erano pubblicati in Italia, e così Serra cerca di memorizzarli. “La cosa che più mi colpì era Devilman di Go Nagai. Non leggevo il giapponese ma il modo nipponico di raccontare, e in particolare quello di Nagai, con un approccio totalmente visivo al racconto, permetteva lo stesso di seguire buona parte degli eventi. Fui quasi scioccato dal fumetto, sia per la violenza inaudita per l’epoca, sia perché era diretto a un pubblico giovanile, era davvero un fumetto per giovani, mentre adesso i fumetti, anche belli, si vede che sono fatti da adulti per gli adulti.”
Forever young
I robot hanno segnato una generazione. Non erano ironici, per citare altri anime, come “Lupin III” con la sexy Fujiko (nella seconda serie rinominata Margot), né mostravano la violenza iconica di “Ken il guerriero” o le romanticherie della soap opera di cappa e spada di “Lady Oscar” (più “da femmine”, però), ma sanno di infanzia, di mondo più semplice. Sanno di nostalgia. Che, come sanno tutti, è canaglia.
Serra del resto è convinto che la grande forza di Go Nagai sia quella di non essere mai cresciuto. “Non ha filtri, non è mai davvero diventato grande. Ancora oggi scrive come se fossimo tutti dei bambini di cinque anni e avessimo ancora da scoprire tutto: la sessualità, la violenza, in una parola, il mondo. E questa sua forza c’è sempre. E ci sono momenti nei quali riesce ancora a sorprendermi, anche dal punto di vista grafico. L’energia e la forza del suo disegno risaltano sempre. Non c’è mediazione, non c’è cultura, solo grandissima energia!”. Un eterno bambino che infatti ha conquistato i ragazzini di allora.
I bambini dell'epoca, come ricorda Ortolani, a dispetto della caccia alle streghe animate, "sono cresciuti, diventando artigiani, professionisti e anche fumettisti. Violenza, niente.".
La sigla del Grande Mazinga
Si sono commossi quando una decina d'anni fa Alessio Caraturo ha fatto una elegiaca cover della sigla di Goldrake, in una sorta di impossibile ritorno all'infanzia. Molti di loro si sono invece offesi quando la stessa cover l'hanno fatta, davvero male, all'ultimo festival di Sanremo gli Zero Assoluto. E non è certo un caso se quando si è voluto fare il primo convincente supereroe italiano, con il film “Lo chiamavano Jeeg Robot”, più che alla Marvel di Iron Man e Avengers, si è guardato ai robot di Go Nagai, con il film che riprende alcune tematiche dell'anime. Il regista, Gabriele Mainetti, classe 1976, è uno di noi, uno della prima generazione robotica, uno cresciuto sognando di pilotare un robot gigante contro altri robot giganti, un figlio di Go Nagai.