“Horace and Pete”, la serie che cerca l'America di Trump nell'America di sempre
Le storie galleggiano nel tempo. Ci sono serie così umane che abbracciano tutte le epoche (“The Sopranos”). Ci sono serie così attente che ricostruiscono, battuta su battuta, il presente (“The Good Wife”). Ci sono serie così moderne che sembrano scritte domani (“Masters of None”). Ma c’è solo una serie così puntuale da regalare il senso della diretta, e ci voleva quel geniaccio di Louis C.K. (produttore, sceneggiatore, regista e protagonista) per crearla. Allestita in clandestinità e distribuita via internet, “Horace and Pete” è una serie come non ne avete mai viste. A cominciare dall’impianto teatrale: inquadrature fisse, intervallo a metà puntata e persino un inchino rituale al termine dell’ultimo episodio. Unico vezzo, la sigla – straziante – di Paul Simon. A Brooklyn c’è un bar, è lì dal 1916. È stato fondato da due fratelli, Horace and Pete. Poi sono arrivati i loro figli e i figli dei loro figli. Un Horace e un Pete, un Horace e un Pete. Gli Horace e Pete del 2016 devono scegliere se spezzare la catena. La sorella Sylvia preme per liberarsi di quell’eredità ingombrante, ma il bar è il loro occhio sull’umanità. L’ossequio alla tradizione è spirito di conservazione o una depressa coazione a ripetere?
Da Horace e Pete il mondo non sembra cambiare mai. I clienti si ereditano con l’arredamento. La birra è la solita Budweiser, i cocktail sono sempre banditi. I negri si chiamano ancora negri anche se il vecchio Pete, un formidabile Alan Alda, è stato tra i primi a dar loro da bere (“Il razzismo è quello che fai, non quello che dici”). E il dibattito è lo stesso di sempre, ma Sanders e Trump hanno preso il posto di Carter e Ford. “Magari potessimo averli entrambi come co-presidenti”, argomenta uno dei bevitori ricorrenti: “Bernie prende tutti i soldi dei ricchi e Trump glieli restituisce in favori che fanno girare l’economia”. Progetto qualunquista e consapevolmente distruttivo.
Poco male: il qualunquismo è la salutare autodifesa di una società che si prende cura di sé, secondo i propri ritmi. La politica si osserva come si osservano i combattimenti dei cani. Se ne parla, può intrattenere, ma la vita è altrove. E quando incontrano la politica, nei panni del sindaco di New York Bill De Blasio, gli avventori di Horace and Pete sono drammaticamente impreparati: uno lo interroga sulle consistenze relative della polizia cittadina e dell’esercito francese, un altro gli chiede l’ora (“Sono le tre.” “Posso citarla sul punto?”).
L’epilogo ci riporta nel 1976 e poi di nuovo nel 2016. Ci rendiamo conto che anche in quell’angolo di Brooklyn apparentemente immutabile il tempo è passato. In un bar in cui le donne erano a tutti gli effetti imprigionate, donne discutono di una donna alla soglia della presidenza. In un locale in cui razzismo e omofobia erano la cultura aziendale, neri e trans sono materiale da fidanzamento. Persino da Horace and Pete il mondo può cambiare, solo un po’ più lentamente che altrove.
È una sensazione confortante, sapere che nemmeno Trump potrà scalfire questa capacità di rigenerazione. I politici sono solo termometri molto costosi. Certo, l’America di Trump ha la febbre, ma di febbre non si muore. Tanto vale, forse, concedergli la presidenza “perché noi siamo persone per bene e lui ne ha davvero bisogno”. O, almeno, “non potremmo fargli credere che è lui il presidente?”.
Nei giorni scorsi, Louis C.K. ha discusso pubblicamente l’economia di “Horace and Pete”. La serie e il suo creatore – che l’ha interamente finanziata, in parte a debito – sono ancora lontani dal punto di pareggio. Questo non significa che il progetto sia stato un flop: proprio come avviene per i prodotti degli studi cinematografici, saranno le ritrasmissioni e le repliche a rimpinguare i ricavi. La storia imprenditoriale di “Horace and Pete” è coerente con la sua morale artistica. Si può innovare la televisione con il teatro, si può reinventare il processo produttivo con il fai da te. Si può, in altre parole, attingere alla tradizione per andare oltre la tradizione. È quello che farà l’America. Nonostante Trump.