I figli dell'eugenetica dem
Anticipiamo un brano del nuovo libro di Roberto Volpi dal titolo “La sparizione dei bambini Down” (Lindau, 96 pagine, 12 euro)
E’ risaputo che il sostantivo “eugenetica” – l’eugenetica – non indica, in sé, qualcosa di disprezzabile. In fondo ci riferiamo, con questo termine, a quell’indirizzo della biologia che mira a migliorare il patrimonio genetico umano – indiscutibilmente, niente di sconveniente. Ma le azioni di stampo eugenetico (e dunque l’eugenetica non tanto come sostantivo quanto piuttosto come aggettivo) messe in atto dal nazismo, e da altri regimi totalitari, hanno finito col conferire al termine una luce – e pure una sostanza – assai sinistra, dal momento che quelle azioni tendevano a eliminare con la violenza selettiva più disumana tutti coloro le cui vite venivano giudicate non degne di essere vissute – e dunque i portatori di handicap fisici e cromosomici, di disturbi psichici e mentali più o meno fortemente invalidanti – e gli appartenenti a razze considerate subumane, parassitarie e bestiali, a cominciare da quella ebraica.
Cosicché quando oggi si parla di programma o intervento di tipo eugenetico si dà implicitamente, senza che quasi ci sia bisogno di specificarlo, un giudizio negativo, intrinsecamente negativo, di quel programma o intervento. Gli indirizzi, le linee di azione, i programmi sanitari vanno in senso eugenetico (non necessariamente negativo di un miglioramento del genoma umano attraverso la marginalizzazione, se non proprio l’esclusione, dei geni meno favorevoli) nella misura in cui si dimostrano capaci di limitare le nascite – ovvero la progenie, la discendenza – dei portatori di difetti congeniti, segnatamente di quelli di tipo cromosomico. Di norma un difetto cromosomico, per restare in quest’ambito, implica in sé una minore capacità dei portatori di tale difetto di riprodursi. I portatori della trisomia 21, i down, lo abbiamo visto, sono praticamente impossibilitati a riprodursi tra di loro.
Occorre uscire dal loro ambito, considerare l’unione di femmine down con maschi non down, per aversi almeno la teorica, per quanto ridotta, possibilità di figli – che però non sarebbero necessariamente down a loro volta. Se i maschi down sono sterili, questa rimane la sola possibilità riproduttiva e si capisce bene come da essa non ci sia da aspettarsi pressoché alcun apporto in termini di nascite down. Selezionare dunque i down, evitare che nascano, non ha un fine eugenetico neppure intrinsecamente. La loro numerosità nella popolazione dipende infatti in modo esclusivo da un “errore” nella fase di combinazione dei corredi cromosomici maschile e femminile nella riproduzione sessuale tra individui non down, non di certo dalla loro capacità riproduttiva, che invece non c’è. E che, non essendoci, non richiede neppure un rimedio – come il più efficace di tutti, la sterilizzazione – al fine di evitarne la riproduzione.
Dunque una prima conclusione appare inoppugnabile: se si fa di tutto per evitare le nascite di bambini down, ciò non succede perché si intende seguire una linea eugenetica che limiti la riproduzione dei down impedendo moralità delle scelte e desiderio di bambini perfetti 85 il rafforzamento della trisomia 21 nel patrimonio genetico umano. Resta un solo motivo: indirizzi e programmi per limitare le nascite di bambini down hanno il solo scopo di… limitare le nascite di bambini down. La questione pura e semplice è che la nostra società (perché è di società che si deve parlare, è nella società che si evidenziano tendenze che vanno in certe direzioni come, appunto, quella della sparizione dei down) mostra di ritenere preferibile, di fronte a un concepimento down, interrompere la gravidanza che portarla a termine, non avere anziché avere un bambino down. Indiscutibilmente non ci si può spingere fino a parlare, a questo riguardo, di “vite non degne di essere vissute” – mutuando l’espressione dal regime nazista che ne fece il nucleo argomentativi giustificativo dei suoi programmi di sterminio degli “imperfetti”.
E questo perché quegli indirizzi e programmi, che si basano sulla messa a punto e la diffusione dei test di diagnosi prenatale, non implicano (a) un’adesione obbligatoria, forzata, da parte delle donne in attesa né (b) la soppressione di vite umane, neppure di quelle più gravemente segnate da qualcuno di questi difetti, una volta che queste vite siano in essere – anche se a questo proposito si deve aggiungere che le possibilità di ricorrere all’eutanasia, anche immediatamente post nascita, si stanno evolvendo nel mondo occidentale assieme ai criteri della bioetica e agli indirizzi e alle possibilità della medicina, cosicché non è da escludersi che a una tale eventualità si possa arrivare. Consigliare, raccomandare incentivare il ricorso ai test di diagnosi prenatale per individuare i feti portatori della sindrome di Down e di altri difetti cromosomici non è fare dell’eugenetica, con tutta evidenza, né perseguire un programma di eliminazione delle vite indegne di essere vissute.
Ma sta di fatto, e questo punto non può essere ignorato, che in ciò si traducono, in ultima analisi: nella preventiva eliminazione di vite che non si considerano degne – non a tutti gli effetti, almeno – di essere vissute. O – ed è questa una variante dello stesso concetto e dello stesso atteggiamento – non tali da meritare quel surplus di accudimento e di educazione, e in ultima analisi di sacrificio, e si dica pure di amore, di cui necessiterebbero da parte di coloro che le hanno generate. Per quanto improbabile, non si può escludere del tutto che i bambini down possano sparire, o essere ridotti a casi sporadici, in conseguenza di una linea di prevenzione che, non preoccupandosi di procurare qualsivoglia numero di aborti spontanei di feti non down, puntasse espressamente all’estensione dei test di diagnosi prenatale a tutte le donne in stato interessante, indipendentemente dalla loro età.
A frenare questa possibilità, come sappiamo, c’è un sacrificio di bambini sani, che verrebbero abortiti spontaneamente, insopportabilmente alto in relazione all’obiettivo. Ma quello che ci appare oggi insopportabilmente alto potrebbe non apparirci più tale domani, specialmente se dovessero tardare ad affermarsi le possibilità riparative del genoma dei feti imperfetti da parte dell’ingegneria genetica. Si deve tenere nel debito conto che la soglia di accettazione di bambini down non ha fatto che abbassarsi parallelamente al crescere della diffusione dei test della diagnosi prenatale – non è qualcosa dato una volta per tutte, anzi. Né questa soglia ha smesso di abbassarsi perché i bambini down di oggi non sono più quelli di ieri, hanno vite più lunghe e autonome, di migliore qualità, di più favorevoli prospettive. Non sappiamo dove ci porterà il desiderio spasmodico di avere solo bambini sani, normali, perfetti. Ma moralità delle scelte e desiderio di bambini perfetti è chiaro che può trattarsi di un desiderio che, oltrepassate certe soglie – e se ancora non le ha superate certo vi è molto vicino – può diventare socialmente, più e prima ancora che individualmente, pericoloso.
Un programma sanitario cosiddetto “Down free” può essere effettivamente pensato, studiato e realizzato da qualche governo di un Paese occidentale, niente glielo può vietare o impedire, meno ancora in un clima, com’è quello che percorre le nostre contrade, in cui tutto ciò che medicina, biologia e genetica possono fare può, se non addirittura deve, essere fatto, in quanto buono o comunque accettabile a prescindere. A oggi i test invasivi di diagnosi prenatale, quelli che offrono le maggiori garanzie di non sbagliare, presentano una non marginale componente di rischio d’aborto, ma domani potrebbero esserne messi a punto degli altri, meno invasivi e rischiosi, con pari se non superiore capacità diagnostica dei casi down. Difficile dire come evolverà la situazione, tra novità della diagnostica prenatale e possibilità, in prospettiva, di interventi di riparazione genetica dei feti imperfetti. I progressi in queste direzioni appaiono però lenti, molto più lenti di quanto non ci si aspettasse. E nel frattempo tendenze sempre più selettive si affermano e si estendono.
Certo, fino a quando ci si potrà rifiutare di sottoporsi ai test di diagnosi prenatale, fino a quando si potrà scegliere di partorire un bambino down pur se diagnosticato come tale, potremo vantare una libertà individuale che sembra dissipare ogni dubbio circa una vocazione sociale, della società in quanto tale, di tipo eugenetico o, quantomeno, autoritaria sul piano genetico- biologico. Ma non c’è chi non veda, credo, come anche la possibilità della scelta, della libertà individuale, non possa essere considerata una “garanzia”, assediata com’è da programmi sanitari per un lato e indirizzi culturali per la sparizione dei bambini down l’altro che convergono tutti sempre più puntualmente attorno a certi obiettivi selettivi. E, tra questi, quello di avere un numero sempre più piccolo, ai confini con l’invisibilità, di nascite di bambini down è un obiettivo che, pur non eugenetico in sé, all’eugenetica un poco fa comunque pensare. Forse perché svela proprio quel sottile sentimento eugenetico che, pur celato anche a noi stessi, si annida nella spasmodica ricerca, e meglio ancora nella pretesa della perfezione psico-fisica dei nostri bambini, dei bambini delle nostre società occidentali postmoderne. Sin dalla nascita, anzi sin da prima della nascita, sin dal concepimento.