Un ritratto di William Shakespeare

Oh popolo che oggi festeggi Shakespeare, sappi che il Bardo ti odiava

Antonio Gurrado
Quanto era snob il grande drammaturgo a 400 anni dalla morte. Niente lo avrebbe rallegrato, dei sotterfugi vari per renderlo vendibile a un pubblico brulicante e indifferenziato. Il Bardo disprezzava il popolo e, se avete dubbi, leggete “I personaggi del teatro di Shakespeare” di William Hazlitt.

Oceaniche folle che oggi celebrate il quadricentenario dalla morte del Bardo, probabilmente non gli sareste piaciute né voi né le iniziative popolari che corredano la ricorrenza. William Shakespeare non avrebbe apprezzato le mappe della metropolitana di Londra in edizione speciale, con ogni fermata intitolata al personaggio di un dramma; lo show in diretta stasera sulla Bbc per celebrare il suo molteplice influsso su ogni forma di spettacolo, jazz incluso; la performance al Barbican in cui trentasei capolavori verranno condensati in un icastico oggetto di uso quotidiano (Amleto: un calamaio; Macbeth: una grattugia); le inevitabili passeggiate con guida petulante sui luoghi della Londra scespiriana; la produzione nordirlandese della “Tempesta”, con un cast di duecentotrenta persone da cinquantasei nazioni dell’Africa; i francobolli con citazioni riduttive come “L’amore è fumo che s’innalza dai sospiri” o “L’amore conforta come il sole dopo la pioggia”. Niente lo avrebbe rallegrato, dei sotterfugi vari per renderlo vendibile a un pubblico brulicante e indifferenziato. Il Bardo disprezzava il popolo e, se avete dubbi, leggete “I personaggi del teatro di Shakespeare” di William Hazlitt (Sellerio) per comprendere la sua convinzione che “la plebe è povera, pertanto dev’essere ridotta alla fame; la plebe è schiava, pertanto dev’essere bastonata; la plebe è ignorante, pertanto non bisogna permetterle di accorgersi che è infelice”.

 

Questa è la drastica sintesi offerta da Hazlitt, dalle cui pagine emerge uno Shakespeare snob che “sembra avere un debole per il versante dispotico, forse a causa di una certa vergogna nei confronti delle proprie origini”, quindi “non perde occasione di dar la baia al popolino”. I  suoi drammi sono regolati da una giustizia poetica basata sull’immaginazione: quest’ultima per Hazlitt si nutre di “ineguaglianza e sproporzione” mentre l’intelletto è una “facoltà distributiva”. L’intelletto e la filosofia sono repubblicani; l’immaginazione e la poesia devono essere aristocratiche, perciò il linguaggio della poesia “si accoda al linguaggio del potere”, “si spinge al di sopra dei criteri che comunemente definiscono ciò che è tollerabile” e “pone l’individuo in luogo della specie, l’uno al di sopra della moltitudine infinita”.

 

Hazlitt scriveva duecento anniversari fa. Pur del 1817, il suo saggio mantiene un carattere intensamente politico che, come spiega l’ottima postfazione di Alfonso Geraci, ha causato polemiche per i due secoli successivi. L’intuizione di uno Shakespeare nemico del popolo non era solo la reazione indisponente di un bonapartista disilluso dalla restaurazione (ne ha parlato anche Nicoletta Tiliacos sul Foglio del 24 gennaio 2015) bensì fa emergere una vena carsica della produzione di Shakespeare, schietto ammiratore delle gerarchie. Altrimenti nel “Troilo e Cressida” non avrebbe scritto che “i cieli e i pianeti osservano grado e priorità seguendo un ordine; il sole, come al comando di un re, si fa obbedire. Come potrebbero le comunità conservare il loro legittimo posto se non per mezzo della gerarchia? Una volta soffocata la gerarchia, segue il caos”.

 

Se Hazlitt non avesse avuto ragione, la sua provocazione avrebbe avuto vita breve. Invece si rifaceva a lui il dibattito promosso negli anni Trenta del Novecento da Bertolt Brecht e altri intellettuali militanti, riguardo all’evenienza che l’immagine dei plebei nei drammi scespiriani potesse fornire appiglio agli antidemocratici. A Hazlitt si riferiva, in piena èra Thatcher, il cancelliere dello scacchiere Nigel Lawson dichiarando che Shakespeare era senza dubbio un Tory; l’anacronismo di uno Shakespeare di destra era talmente azzeccato da dar vita, sulla London Review of Books, a una lunga polemica gauchista incentrata sulla domanda: “I drammi di Shakespeare sono essenzialmente reazionari?”. Sulla raffinata rivista londinese volarono gli stracci per due anni e, dall’impegno che grandi studiosi profusero nella confutazione, si capì che tentavano di negare un’evidenza.
Antonio Gurrado

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