Che cosa non torna nel reality show spagnolo sulle vocazioni delle suore
In Spagna Mediaset manda in onda un reality che s’intitola “Quiero ser monja”, voglio farmi suora. Cinque ragazze che in qualche modo si sono sentite interrogate dalla prospettiva di una vita religiosa totalmente dedicata passano due mesi presso il convento del Santissimo Sacramento di Madrid e alla fine, tra discussioni con il pubblico e con i conduttori, decideranno se questa è la loro strada. Ascolti altissimi e polemiche. Dal punto di vista della comunicazione, il reality spagnolo permette di chiarire il famoso motto “il mezzo è il messaggio”. Di per sé, si dovrebbe dire che si tratta solo della furba trovata di qualche sceneggiatore che intravede un tema nuovo che può incuriosire la morbosità latente di ogni spettatore. D’altro canto, a prescindere dalla buona fede delle ragazze, su cui qualcuno ha sollevato dei dubbi, le suore avranno pensato di aiutare così la diffusione missionaria del loro buon messaggio.
Tuttavia, purtroppo per loro, i mezzi non sono neutri. Non bisogna averne paura ma occorre conoscerli. La comunicazione è fatta da tanti tipi di segni. Ci sono parole e concetti (simboli), legami diretti e reazioni fisiche (indici), immagini ed emozioni (icone). Provate a parlare di fronte a una telecamera o anche solo a parlare con qualcuno sapendo di essere ascoltati da lontano o di nascosto. Vi accorgerete che diminuirà l’attenzione ai concetti e aumenterà quella al vostro aspetto e al tono della voce. Se poi c’è un format, come un reality, i concetti verranno espressi in certi momenti specifici e con una certa tempistica: di nuovo, ciò farà diminuire la loro precisione che necessita di lunghe articolazioni, e anche di silenzio, mentre aumenta in modo esponenziale l’emozione che li accompagna. Format diverso, segni diversi: un telegiornale trasforma tutti i concetti in pura informazione, in semplice riferimento. Per questo, qualsiasi concetto in un reality diventa uniformemente sentimentale e qualsiasi notizia diventa uniformemente didascalica. Così, qualunque cosa le suore vogliano o pensino, il mezzo e il format trasformeranno concetti e realtà vertiginose come Dio, le domande di significato della vita, il dilemma tra piacere immediato e felicità profonda, in sentimenti semplificati e appiccicosi. La vocazione a una vita di dedizione diventerà identica alla scelta del fidanzato e a quella del miglior modo per far funzionare un ristorante.
Vuol dire che questi mezzi sono cattivi? No, vuol dire solo che bisogna conoscerli e, quindi, usarli in modo naturale e adeguato ai fini, come abbiamo fatto con i loro predecessori tecnologici, dalla pietra colorata per dipingere le caverne alla scrittura a stampa. Quando il rapporto è adeguato, le tecnologie permettono gesti di conoscenza. Altrimenti, sarà come cercare di uccidere una zanzara con un bazooka o, come nel caso di queste suore, cercare di raccogliere l’acqua del mare con una conchiglia. Purtroppo, almeno nel mondo occidentale, abbiamo oscillato tra l’ignoranza di chi ritiene che i mezzi siano neutri e l’idolatria di chi li considera l’inevitabile destino. Pasolini se n’era accorto con profetica prontezza e chiamava omologazione il risultato di questo processo. Le vocazioni personali sono l’ultima tappa di conquista di un uso inconsapevole e ineducato dei mezzi di comunicazione, che è passato per “Drive in” e “Il Grande Fratello” tra il disprezzo (e l’uso costante) degli intellettuali impegnati e l’indifferenza delle decisioni politiche. Non se ne può uscire diffidando delle tecnologie: bisogna educarsi a conoscerle, cioè a usarle, anche in convento.