Scrivere serie tv è uno sporco lavoro, ma per fortuna c'è qualcuno che lo sa fare
"E’ tutta una questione di personaggi, personaggi, personaggi… E’ questo l’ingrediente segreto dello show”. Non sempre gli scrittori (meglio: “showrunner”, giacché parliamo di serie tv) riescono a cogliere con precisione il segreto della propria grandezza. Ci riesce perfettamente Damon Lindelof di “Lost” nella dichiarazione al New York Times che abbiamo appena citato, rubandola a “La nuova fabbrica dei sogni”.
Firmano il libro (appena uscito da il Saggiatore) Aldo Grasso e Cecilia Penati. Lo possiamo considerare il sequel di “Buona maestra. Perché i telefilm sono più diventati più importanti del cinema e dei libri”, dove Aldo Grasso rovesciò il luogo comune popperiano della “cattiva maestra”. Ora siamo tutti critici tv – François Truffaut, convinto che ognuno di noi avesse due mestieri, “il proprio e quello di critico cinematografico”, deve aggiornare la battuta. Nel 2007, mettere in dubbio il primato dei film e dei romanzi nella costruzione del nostro immaginario – e nelle faccende che davvero ci stanno a cuore – era considerato un’eresia. O una boutade.
Tre sono le sezioni: showrunner, temi, e appunto personaggi. Battezzati direttamente “eroi”, come in ogni rispettabile mitologia. La mossa serve anche per contrastare la tendenza all’anti-eroe, quando nessun romanziere o regista voleva prendersi la responsabilità di inventare qualcosa di grandioso, anche nel male, e così la formula generò una noiosa schiera di personaggini appena abbozzati.
Poi per forza che conquistano il campo le serie tv, dove anti-eroe non sta per l’impiegatuzzo che teme la sua ombra. Ma è uno come Dexter, il serial killer del serial killer. Un giovanotto dall’aria non particolarmente inquietante, ma capace di arrivare là dove la polizia non osa metter piede. O uno come Walter White di “Breaking Bad”, che malato di cancro pensa a come lasciare un’eredità alla famiglia. Nella cronaca letteraria capitò a Anthony Burgess, lo scrittore di “Un’arancia a orologeria”: dopo l’infausta prognosi, nel 1959, sfornò cinque romanzi, due commedie, poesie, traduzioni, racconti (il medico si era sbagliato, vivrà fino al 1993). Da bravo professore di Chimica, Walter White si mette a cucinare con successo metanfetamine, e scopre un lato oscuro che neanche Mr. Hyde.
Le serie tv occupano uno spazio che nessuno voleva occupare. Meglio: che nessuno era in grado di occupare, per pigrizia o per incapacità o per convinzione che il frammentario mondo d’oggi è difficile da afferrare e impossibile da capire. E allora via con patetiche storie di scrittori che non riescono a scrivere e di registi che non riescono a girare, come se in quella estenuazione l’Europa avesse deciso di riporre tutta la propria intelligenza (presunta). Gli americani si sono messi a fabbricare personaggi. Sarà anche uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare. Senza Tony Soprano, senza Don Draper, senza Carrie Mathison di “Homeland”, senza Hannah Horwath di “Girls” il nostro universo sarebbe molto più povero. La sezioni dedicate alle ossessioni e agli showrunner forniscono uno sguardo al laboratorio, e tracciano una mappa della modernità. Stupisce perciò che la generazione cresciuta a pane e serie, se interrogata su quel farà da grande immancabilmente risponde “un romanzo”. Deve essere perché le serie tv son più difficili da scrivere.
Universalismo individualistico