La politica fatta per i bebè
“Spesso giovanotti in procinto di tuffarsi nella vita mi chiedono: Come si diventa internati? Be’, ci sono vari modi. Il mio è stato quello di comprare una villa nella Francia del Nord e aspettare che arrivasse l’esercito tedesco. Questo è probabilmente il piano più semplice. Tu compri la villa, e l’esercito tedesco fa il resto” (P. G. Wodehouse)
“Poiché ci occupammo di parole, ed esse ci spingevano/a purificare il dialetto della tribù” (T. S. Eliot)
Un uomo vive in uno stato da incubo, dove gli hanno insegnato a perdere le parole per strada, trascinarsi apatico per mesi, a urlare di odio e accoppiarsi a comando. Ma esiste un luogo dove polizia e torture non possono ancora raggiungerlo: i sogni. Eccolo scorgere un prato dove “i rami degli olmi oscillavano dolcemente per una brezza leggera e le foglie si scuotevano in masse dense come capelli di donna”, e una ragazza effettivamente compare, spogliandosi con delicata, straziante bellezza: “La grazia di quel gesto, e insieme quasi la sua noncuranza, sembrava che quasi annullassero un’intera cultura, un intero sistema filosofico, proprio come se il Gran Fratello e il Partito e la Psicopolizia potessero essere ridotti a nulla da un unico splendido movimento delle braccia. Anche quel gesto apparteneva ai tempi trapassati”. Ed ecco un accenno misterioso: “Winston si svegliò con la parola Shakespeare sulle labbra”.
E’ appena un suggerimento, un’eco, ma l’Orwell di “1984” sta indicando, come solo lui sapeva fare, una delle sue preoccupazioni fondamentali, la connessione vitale e mai scontata tra linguaggio e pensiero: “Un uomo può cominciare a bere perché si sente un fallito e poi fallire ancor di più perché beve. Ed è un po’ la stessa cosa che sta accadendo alla lingua inglese. Essa diviene brutta e trascurata perché i nostri pensieri sono vacui, ma la sciatteria della nostra lingua favorisce ancor più l’avere vacui pensieri”. La cartina di tornasole dell’impoverimento del nostro linguaggio – e quindi del nostro sguardo sul mondo – era per lui costituita dalla “ovvietà delle immagini e la mancanza di precisione” diffuse dai media. Una preoccupazione che Christopher Hitchens avrebbe ereditato dal suo personale “Virgilio”. Anche lui era profondamente convinto che l’attenzione e la cura del dantesco “bello stilo” dei nostri discorsi e scritti, nutrita dalla testimonianza della grande arte (quello Shakespeare che echeggia come il suggerimento discreto ma rivoluzionario di tutto un altro modo di scrivere, e guardare) e dal contrappunto impalpabile dell’ironia, non fossero assolutamente superflue per difendere le verità fondamentali dell’esistenza, e mettere a fuoco le menzogne che ci vengono servite con la violenza, o il sorriso. Una preoccupazione che percorre anche i suoi testi e interventi più politici, come gli attacchi a Kissinger o ai Clinton. Come ebbe modo di dire il comico Stephen Fry in una serata commemorativa, “per Hitchens una verità detta male diventa una menzogna”.
Questo capitolo della nostra Hitchensiana è, in superficie, il meno biografico, ma non per questo il meno importante, anzi. Idealmente, vorrebbe intrufolarsi nell’officina del polemista e del giornalista, come fosse quella di un artigiano, e sbirciargli da dietro le spalle per osservare come lavorava sulle parole; è da questi esempi pratici che possiamo capire davvero non solo cosa pensasse, ma come. In fondo i veri maestri non ti consegnano mai un manuale, ma un metodo. E nel leggere Hitchens si respira a ogni pagina una certa “aria”, che fa più bene alla salute intellettuale di mille corsi e dibattiti sul giornalismo. Proviamo dunque non a catturare l’aria – proprio Shakespeare ci ricordava che essa è invulnerabile – ma a respirarla. Il lettore non si spaventi. Come ammise Sam Harris, che affiancava Hitchens in un dibattito, e temeva di annoiare gli ascoltatori. A detta di sua moglie, non c’era alcun problema: “Hitchens non è mai noioso”.
Chi ama il linguaggio, ama anzitutto giocarci. Gli scrittori si trovano spesso insieme più per sghignazzare che per declamare solenni e stentorei. Lo sapevano Dante, Cavalcanti e Forese, lo sapevano Lewis, Tolkien e gli Inklings; lo sapevano Hitchens e i suoi amici dei pranzi del venerdì, Clive James – celebre per la perfida descrizione di un interlocutore, “il suo fiato stava rovinandomi la cravatta” – Mark Boxer – “Il colmo della maleducazione è andare a letto con qualcuno meno di tre volte”, il grande romanziere Martin Amis, il poeta George Fenton. Una delle sfide fisse era sostituire una parolaccia nei titoli dei romanzi celebri (La verga dalla pistola d’oro, La nostra verga all’Avana, Verghe senza donne, Quelle magnifiche verghe sulle loro macchine volanti, Ho lasciato il mio cazzo a San Francisco, Seppellite il mio cazzo a Wounded Knee, Cazzo di tenebra, Il cazzo della questione). Hitchens amava scherzare sul sesso anche in proprio – “Da quando ho scoperto che il pene, datomi da Dio, non mi avrebbe dato pace, ho deciso di ricambiare non dandogli alcun riposo”.
Ma l’umorismo non si contrappone alla serietà, anzi. Come notava Lewis sul lampeggiare arguto e paradossale di Chesterton, “la spada lampeggia non perché il guerriero ha deciso di farla lampeggiare, ma perché si batte per la sua vita e perciò la muove con la velocità del lampo”. E nell’animo di Hitchens c’era sempre la serissima convinzione che le parole, scherzose o gravi, soprattutto quando si fanno acuminate come nella grande espressione artistica, vanno davvero custodite e difese con la spada, non solo dai potenti di turno: “Libri che un tempo furono banditi o ridicolizzati o entrambe le cose, dal tempo della condanna di Socrate fino a quella del proibito Ulisse, hanno dovuto essere salvati non grazie alla massa, ma dalla massa… Nelle biblioteche ci sono adesso molte opere di genio che sarebbero state ridotte in cenere se si fosse fatto un giro di opinioni”. Temeva la cappa di generalizzazioni che si notano in tanto qualunquismo, e che ancora una volta si tradisce nella banalità anche delle nostre traduzioni: “Se il bianco e il nero non sono colori veri, non lo è però neppure il grigio. La tautologia è in agguato, e aspetta il momento di ghermirti nel suo abbraccio. L’oracolo greco proclamava come suprema saggezza il ‘nulla troppo’; l’infedele traduzione moderna suona: ‘la moderazione è tutto’, il che non è proprio la stessa cosa”. Una sfumatura, si dirà, ma è di questi dettagli smussati che si ciba il linguaggio ridotto paventato da Orwell. “Nel nuovo gergo, certe idee comprensibili diventerebbero inesprimibili”.
L'Orwell di “1984”
E di conseguenza, anche alcuni concetti. Per questo, negli anni che vedevano dilagare Facebook e Twitter, Hitchens, niente affatto luddista, si diceva molto preoccupato per il futuro della comunicazione e del dialogo, anzitutto politico: “Un tempo la gente di cervello si sarebbe rifiutata, con un filo di orgoglio, di costringere le proprie idee nello spazio di un’etichetta, o di adesivo per paraurti”. E metteva in guardia: “Ben presto saremo in grado di ridurre la politica elettorale a una neolingua essenziale fatta di una decina di parole chiave: Sogno, Paura, Speranza, Nuovo, Popolo, Noi, Cambiamento, America, Futuro, Insieme”. Fermatevi a sottoporre il più celebre slogan di Barack Obama a questa analisi, e i risultati non saranno lusinghieri: “Yes we can. E’ il tipo di incoraggiamento che dei genitori potrebbero rivolgere a un bambino che fatica ad abituarsi al vasino”. Quanto alla caccia scatenata sul termine negro, anche nei romanzi di Mark Twain, Hitchens, ancora una volta, distingueva: “Un tabù è qualcosa di ben diverso da un galateo condiviso.” Così come trovava assai triste che il raffinato termine “discriminare” fosse finito incollato a razzisti e omofobi, che tutto fanno meno che distinguere e discernere.
L’amore e la difesa del linguaggio gli faceva riconoscere come autori essenzialmente politici non solo l’ammirato Emile Zola del J’Accuse all’antisemitismo, che aveva additato già nell’800 i “giornali che strisciano ventre a terra di fronte ai loro lettori”, ma ovviamente anche Orwell – per cui talvolta nella vita si incappa in “qualcosa di così stupido e bieco al tempo stesso che solo un intellettuale poteva essere capace di proferirlo” – e i meno ovvi Rushdie e Wilde. La difesa di Rushdie dalla fatwa lanciata iraniana per i suoi “Versetti satanici” divenne per Hitchens la cartina di tornasole per misurare parecchi interlocutori: “Nei pubblici dibattiti con coloro che si mostravano preoccupati per gli effetti blasfemi o profani del romanzo, o che dicevano di esserlo, cominciavo sempre col dire che occorreva liquidare una questione. Posso presumere che siate contrari senza riserve all’istigazione all’omicidio, per denaro, di un uomo di lettere? E’ stato educativo vedere quanto spesso venisse a mancare questa assicurazione, o venisse espressa con riserva. Quando era così, mi rifiutavo di discutere oltre”. Mentre Wilde andava addirittura collegato, a suo giudizio, al “potere dei senza potere” additato dal dissidente Havel: “Nel tardo periodo vittoriano, Oscar Wilde – principe della posa ma non un poseur – decise di vivere e agire ‘come se’ l’ipocrisia morale non fosse allora dominante. Nel profondo sud dei primi anni Sessanta, Rosa Parks (dopo qualche problematica prova generale) decise di agire ‘come se’ una laboriosa donna nera potesse sedersi su un autobus al termine della sua giornata di sgobbo. A Mosca, negli anni Settanta, Aleksandr Solzenicyn risolse di scrivere ‘come se’ uno studioso isolato potesse investigare la storia del paese e pubblicare le sue scoperte. Tutti costoro, comportandosi secondo la lettera, agivano ironicamente”.
Eccola, l’ironia, attraente ed elusiva come la Cerva Bianca. Per Hitchens era tanto indefinibile, quanto essenziale, per uno sguardo, un pensiero, una scrittura degni di essere coltivati: “E’ il gin nel Campari, il fattore X, la mossa del cavallo sulla scacchiera, le fusa del gatto, il nodo nel tappeto”. In un certo senso, come il Dio di certe teologie medievali, la si può definire più per negazione. Che si tratti di un articolo, una battuta, o una vignetta umoristiche, il consiglio pratico di Hitchens era sempre lo stesso: “Se pensi di stare esagerando, vuol dire che non hai fatto abbastanza; e se ridono tutti, vuol dire che hai fatto fiasco”.
Forse la cosa migliore è mettere Hitchens stesso alla prova, e vedere come l’attenzione alle parole, proprie e altrui, determinasse questioni assolutamente decisive. E come l’ironia non costituisse una mera predilezione personale, ma fosse parte integrante della sua analisi critica. Si prenda questa risposta di Al Gore a una donna che gli chiedeva conto delle accuse di stupro rivolte a Bill Clinton.
Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti d'America durante la presidenza di Bill Clinton (foto LaPresse)
Vale la pena citarla estesamente: “Credo di aver detto che non so come giudicare la cosa, e non ho visto, uhm, l’intervista. Uhm, ma devo dirvi qualcos’altro su questo. Perché non si alza nuovamente, visto che vorrei guardala negli occhi? Uhm, penso che, uhm, penso che qualsiasi errore che lui abbia commesso nella sua vita personale, nella mente della maggior parte degli americani resti bilanciato da quello che ha fatto nella sua vita personale come presidente. Uhm, la mia filosofia, dal momento che ha chiesto la mia fede religiosa, la mia tradizione religiosa mi insegnato a odiare il peccato ma amare il peccatore. Mi è stato insegnato che, uhm, tutti noi siamo eredi di, uhm, errori; che, uhm, siamo tutti inclini agli errori che eredita la carne. E penso che, uhm, nel giudicare la performance come presidente, credo che la maggior parte delle persone non veda l’ora di smettere di parlare di tutti gli attacchi personali contro di lui. Stanno cercando di risolvere, uhm, tutte le accuse, e vogliono, invece, uhm, andare avanti e concentrarsi sul futuro. Ora, io dico a voi, lui è mio amico, e che l’amicizia, uhm, è importante e se hai mai avuto un amico che ha fatto un grave errore e poi avete riparato l’amicizia e siete andati avanti, allora sapete com’ è stato il mio rapporto con lui. In secondo luogo, mentre tutto questo era in corso, ho provato verso di lui la stessa delusione e rabbia della maggior parte delle persone. Si può avere, avrete sentito un, uhm, un diverso tipo di emozione, non lo so. Ho la sensazione che le abbiate provate anche voi. Io, io certamente ho provato quello che ha provato la maggior parte degli americani. In terzo luogo, sono stato coinvolto in un sacco di battaglie dove lui e io abbiamo lottato in nome del popolo americano, e penso che abbiamo fatto una buona differenza positiva per questo paese. Grazie”.
Ed ecco la chiosa di Hitchens: “E grazie a lei, Signor vicepresidente. Innumerevoli cose grottesche saltano all’occhio, persino dedicando a uno sguardo distratto su questa distesa fiacca di evasività e untuosità stereotipate. Mr. Gore tenta evidentemente di identificarsi in modo indolore con la “maggior parte” (ripetuto quattro volte) del pubblico. Eppure sente anche la vaga necessità di reclamare il coraggio e una questione di principio, perciò chiede alla solitaria autrice della domanda (che si è giustamente rimessa a sedere) di alzarsi e guardarlo negli occhi. Che galanteria! Poi le dice che ‘Dal momento che ha chiesto la fede religiosa’ – cosa che lei invece non aveva fatto – ha il diritto ad alcune pie devozioni, nelle quali procede citando malamente l’Amleto più che il Discorso della Montagna. Ma tutto ciò non è che un dettaglio meschino, se paragonato alla sconvolgente, allibente, inevitabile realizzazione. Per la prima volta nella storia americana, a un vicepresidente in carica è stato chiesto se ci sia o meno uno stupratore nello Studio ovale […] e costui risponde, con lunghezza disumana, che non lo sa!”. Quando invece dovette dibattere con Tony Blair sul valore positivo o meno della religione, Hitchens a sorpresa cominciò leggendo non il Grande Inquisitore di Dostoevskij o qualche testo su Torquemada, ma il beato cardinale Newman e la sua celebre Apologia: “La chiesa cattolica ritiene che sia meglio che il sole e la luna precipitino dal cielo, che la terra perisca, e che i tanti milioni di creature su di essa muoiano in estrema agonia, piuttosto che un’anima, non dico vada perduta, ma debba commettere un solo peccato veniale, affermi volontariamente una menzogna, o trafughi uno spicciolo senza scusa”. E dopo aver ammesso da collega letterato che il brano era comunque “splendidamente espresso”, tuttavia aggiungeva che “a mio avviso, quanto che vi troviamo è precisamente ciò che è distorto e immorale nella mentalità fideistica. Si tratta essenzialmente di fanatismo, nel reputare l’essere umano una materia prima e nella sua fantasia di purezza. Una volta presupposto un creatore e un piano, ciò rende gli uomini gli oggetto di esperimento crudele nel quale siamo creati malati e ci viene ordinato di essere sani”.
Si è già capito che la spuma dell’arguzia, accesa dal sole, o le profondità silenziose della commozione, non sono neppure separabili dal vento delle burrasche, dai cieli lividi dell’inverno. Né, in fondo, lo vorremmo. Ecco cosa rendeva a Hitchens assolutamente rivoltante anche la spiritualità orientale e qualsivoglia aspirazione a un nirvana che dissolva l’io: “Il punto è che nessuno può desiderare seriamente il dissolvimento della propria intelligenza. E i piaceri e le ricompense dell’intelletto sono inseparabili dall’Angst, dall’incertezza, dal conflitto e anche dalla disperazione”. Ancora una volta, sarà meglio vedere questa sua convinzione alla prova dei fatti, all’ultima prova, in effetti. Quando, dopo esservi trovato a vomitare in modo sinistro, gli fu diagnosticato un tumore proprio alla gola con cui aveva riso e battagliato per tutta la vita.