Il Figlio
Se non vai a un pigiama party non sei nessuno
Verso le tre del mattino ho incontrato in corridoio una delle bambine a casa nostra per il pigiama party. Perché non dormi?, le ho chiesto con tutta la gentilezza possibile, la gentilezza materna e cauta che si riserva ai figli quando non sono tuoi. Perché se dormo poi le altre leggono i miei segreti sul diario, ha risposto lei, stringendo un quaderno fra le braccia e dirigendosi verso la cucina dove mi sono sentita in dovere di seguirla. Margherita ha aperto il frigorifero, tirato fuori i resti del profiterol del compleanno, preso un cucchiaio sporco dal lavello e si è seduta a mangiare in silenzio. Ho cercato, con circospezione un po’ esasperata, di convincerla a tornare a letto. Tra poche ore andate a scuola, devi riposare, da’ a me il tuo diario, lo metto in un posto sicuro e ti prometto che non leggerò niente, difenderò i tuoi segreti a costo della vita. Margherita, che ha undici anni, mi ha detto, con la bocca piena di cioccolato: perché dovrei fidarmi di te? Tutte le madri leggono i diari di nascosto, siete delle ficcanaso.
Era troppo tardi per discutere, avrei dovuto anche darle ragione, non mi restava che minacciarla. Se non torni subito in camera non ci saranno mai più pigiama party. Il sogno narcisistico di diventare la madre preferita delle amiche di mia figlia si è infranto sul primo sleepover ufficiale, prova di forza fra genitori e ragazzine a carico, e anche fra madri e padri dei compagni di classe, in cui arriva sempre un momento in cui si sente, fortissima, la tentazione di dare ragione a Sartre: l’inferno sono gli altri (genitori). Margherita mi ha lanciato un’occhiata delusa (“allora era meglio mia madre”, ho sentito distintamente il rumore dei suoi pensieri), è tornata in camera, dove le altre bambine stavano chiacchierando, una appoggiata all’altra, come se fossero le tre del pomeriggio. Parlavano di un cavallo blu, e nessuna era a letto: avevano deciso di dormire per terra con i sacchi a pelo e le coperte, “per fare esperienza”. Esperienza di cosa? Di avventure, ha risposto mia figlia. Quelle cinque ragazzine in pigiama, gambe incrociate, gambe accavallate, code di cavallo e pupazzi tra le braccia, erano così piene di energia e di fiducia nelle vite avventurose che vivranno, nella giovinezza che si avvicina a grandi passi per sostituirsi all’infanzia, che non le ho sgridate più e ho lasciato, come chiedevano, la luce accesa, “perché Susy ci ha raccontato una storia di paura con un assassino che da bambino nessuno invitava ai pigiama party e che da grande va nei pigiama party a uccidere tutti”.
Funziona così, adesso: se non vai ai pigiama party non sei nessuno. Se non esci di casa con lo spazzolino da denti in tasca, già dai quattro o cinque anni (anche Peppa Pig fa lo sleepover) hai una vita mondana difettosa e rischi di diventare un adulto sociopatico. Questo imperativo categorico ha contraccolpi e costi vitali piuttosto alti, che comprendono la notte insonne dei genitori ospitanti, che ogni dieci minuti si alzano a controllare che siano tutti vivi (quando non sento rumore di voci o di giochi non penso mai che stiano semplicemente dormendo, ma che almeno uno sia soffocato per un attacco d’asma, o che abbia aperto la finestra perché sonnambulo – quindi di solito blocco le finestre – o che sia arrivato davvero il killer dei pigiama party, o anche che si siano uccisi a vicenda durante una guerra di cuscini, e se dormo sogno che mi chiamano dalla stanza in fiamme e io non le sento). Le conseguenze dello sleepover (per il quale esistono manuali dedicati solo alle regole del pigiama party, che per essere perfetto e istruttivo dovrebbe avvenire a rotazione quasi ogni sabato sera) prevedono anche la telefonata nel cuore della notte al padre dell’amico, che comunque dorme vestito e con le chiavi della macchina in mano perché sa che cosa lo aspetta: scusa, Rocco non vuole più stare qui, sta piangendo, è meglio se vieni a prenderlo, mi dispiace, aspetta te lo passo. Succede anche durante i pigiama party nella casa in campagna a settanta chilometri da casa, nonostante mille raccomandazioni: sei sicuro amore mio, davvero ci vuoi andare? Non è che poi cambi idea? Guarda che non posso venire a prenderti eh, devi essere convinto di dormire fuori.
Il bambino alle cinque del pomeriggio è certissimo, e anzi non vuole nemmeno portarsi il cavallo di peluche senza il quale non si è mai addormentato da quando è nato, promette che non farà mai più capricci, non vuole regali di compleanno, scrive a Babbo Natale in maggio per dirgli non portarmi niente, voglio solo questa notte fuori, sei licenziato. Invece verso le dieci sera, dopo aver mangiato il cheeseburger davanti a un cartone animato come nei suoi sogni, dopo essersi messo in pigiama da solo, comincia a sentirsi strano e impaurito. Chi sono questi adulti accanto a me? Perché mi sorridono? Perché parlano in un modo strano, perché sono così brutti e con queste pantofole giganti, dov’è mia mamma che invece è meravigliosa? Perché mi ha abbandonato? Voglio andare a casa mia, voglio il mio letto, mi scappa la pipì, ma qui non la faccio perché mi guardano tutti.
In fondo questo è solo l’allenamento prima di dormire vestiti per andare a prendere i figli in discoteca, ogni volta minacciando di mollare tutto e andare a fare la missionaria in Africa, “dove almeno hanno davvero bisogno”.
La dittatura del pigiama party ha però anche lati positivi: per una volta il figlio abituato a svegliarsi alle 5,30 si sveglierà alle 5,30 a casa di qualcun altro. Se si è mentitori professionisti, e disposti a tutto per dormire un’ora in più, si potrà fingere stupore quando il genitore con le occhiaie nere ci informerà timidamente che nostro figlio si è svegliato molto presto, pur andando a letto molto tardi, e ha preteso di fare colazione con i corn flakes e di giocare a Cluedo. Strano, di solito è un dormiglione, si vede che il cambio di letto lo ha spiazzato. E anzi si insinuerà il dubbio che i compagni di pigiama party lo abbiano svegliato (“so che Giovanni urla nel sonno, te lo dico perché è successo anche a casa mia, credo abbia qualche problema a causa della separazione dei genitori”). Lo sleepover è una specie di termometro, rilevatore di debolezze e speranze: un padre ha lanciato a casa mia sua figlia con lo zainetto direttamente dal motorino, gridandomi “grazie” quando era già lontano, salvo poi telefonare quattro volte durante la serata, mentre la madre scriveva nella chat apposita, “Sleepover” (l’unica chat di gruppo che è vietato silenziare): non sapete quanto mi manca.
Ma l’hanno taggata, quella sera stessa su Facebook, nelle foto di una festa in discoteca e indossava una parrucca rosa. Così, quando alle quattro e mezza mi sono alzata una seconda o terza volta e non era cambiato niente, tutte ancora lì con le gambe accavallate e la luce accesa, ho minacciato di telefonare subito ai loro genitori. Ho spento la luce. Poi mi sono messa un cuscino sopra le orecchie, nemmeno i possibili attacchi d’asma mi terrorizzavano più, ma ho visto un messaggio delle quattro e venti: tutto bene? (dalla madre con la parrucca rosa). A colazione saltavano come grilli e raccontavano di essersi alzate tutte e cinque per bere e di avere visto un uomo in salotto con una maglietta bianca e di avere avuto paura. “Non è tuo padre, tuo padre aveva la maglietta blu!”. E allora chi è? Un ladro! Un ladro seduto sul divano! O un fantasma? O il killer dei pigiama party? Aiuto! Solo alla mattina, con la luce del giorno, hanno scoperto che non era un uomo, ma una lampada bianca a forma di uovo accanto al televisore. Ridevano così tanto, e non erano per niente stanche. Hanno stabilito che per loro due ore di sonno ogni notte sono più che sufficienti. La sera mia figlia ripeteva che non aveva sonno e che avrebbe fatto volentieri un altro sleepover, questa volta sul tetto del palazzo sotto le stelle. Si è addormentata prima di finire la frase, mi hanno detto, ma io non l’ho sentita perché stavo già dormendo, come dopo una notte in discoteca con la parrucca rosa.