A Cannes, senza acqua e panini al camembert, ci godiamo il folle e grasso poliziotto in missione tra le dune
La domanda “Utile o futile?” – Libération di qualche giorno fa, a proposito del Festival di Cannes – ricordava le signore vanitose in cerca di complimenti. Vero è che i potenti mezzi a disposizione consentirebbero a tutti i convenuti sulla Croisette di starsene comodi a casa, guardando i film in streaming. Magari su link attivi in contemporanea, per preservare il rito collettivo. Si potrebbe, come si potrebbe non andare alla Buchmesse di Francoforte, visto che ormai i manoscritti e i contratti girano via mail.
Si potrebbe, ma intanto siamo tutti qui, a vedere il miglior cinema del mondo, e a spiare i piedi nudi di Julia Roberts sul tappeto rosso. Lotta per le pari opportunità oppure le facevano male i sandali abbandonati prima di affrontare gli scalini? “Tenue correcte”, richiede il protocollo alle proiezioni serali, e infatti l’anno scorso si parlò di signore non ammesse perché avevano le scarpe basse (non era vero, bastano le ballerine purché non accoppiate alla tuta da ginnastica). Conoscendo le femmine, e pure un po’ le dive, la mossa sembrava più un tentativo di rubare la scena a Mrs Clooney, Amal Alamuddin, che combatteva con l’abito lungo non avendo fatto a casa abbastanza prove di giravolta davanti ai fotografi.
Si potrebbe fare tutto in streaming, forse anche le conferenze stampa dove pochi riescono ad entrare, si guardano sul sito o sui televisori del Palais. E invece siamo qui, tranne i giornalisti di Canal + che son rimasti a Parigi e si lamentano. Lo spietato Vincent Bolloré ha ridotto le trasmissioni dal Festival di Cannes. E forse – ma ancora non può, ci sono impegni già presi – ridurrà il suo impegno nel cinema (dove per “impegno” si intendono gli anticipi sui diritti d’antenna, e fin qui sono stati centinaia di milioni).
Siamo qui a fare le file, a lasciare le bottigliette d’acqua all’entrata – “in caso di sete ci sono i bagni”, ricordano gli uomini della sicurezza – e addio al panino con il camembert che consentiva le maratone. Siamo qui a litigare sull’ultimo film di Bruno Dumont, “Ma Loute”, proiettato ieri mattina in concorso. Cronaca delle puntate precedenti: era un regista proveniente dal cupo nord della Francia – “manicomio, carcere, riformatorio, e alcuni di noi li hanno passati tutti e tre” – con un debole per le storie di disperati.
Qualche anno fa, qui a Cannes, ha presentato la sua serie tv (gran sorpresa, avremmo giurato che non l’avesse neppure, la televisione). “P’tit quinquin” cominciava in Piccardia, con una mucca volante, ed era uno spasso. Qui vola un poliziotto – più o meno grande come una mucca – che tra le dune fa coppia con uno magrissimo. Indagano su misteriose sparizioni, tra ricchi fannulloni (anche incestuosi, scopriremo poi) e poveri che si arrangiano. Folle, sguaiato, un po’ troppo lungo, a volte macchiettistico, raro divertimento in concorso.