Festival di Cannes 2016
A Ken Loach la Palma d'Oro di Cannes per le lacrime
I, DANIEL BLAKE di Ken Loach, con Dave Johns (concorso)
Se la Palma d’oro fosse assegnata in base alle lacrime ha già stravinto, mai visti tanti fazzoletti in sala. Tornato a girare dopo il ritiro annunciato due anni fa, Ken il rosso azzanna il welfare britannico. Attacco cardiaco, il carpentiere non può lavorare (dice il suo medico). L’addetta gli chiede se può fare cinquanta metri a piedi, lui conferma, e viene dichiarato abile al lavoro. Contributi sospesi, appello, mutuo soccorso con una madre single che si toglie il pane di bocca per i figli. Mai una parola su chi il welfare lo ha sfruttato, è tutta colpa del cattivo David Cameron. Mai una parola su chi il welfare rischia di non sapere cosa sia.
TONY ERDMANN di Maren Ade, con Peter Simonischek (concorso)
Commedia tedesca è una contraddizione in termini, anche questa fa di tutto per avere i suoi momenti morti – davvero non c’era bisogno di farla durare quasi tre ore. Parte su un signore che fa scherzi pesanti al postino, va in giro truccato da zombie e si mette i denti da vampiro (gli piace parecchio anche il cuscino spetazzante). Svolta quando il nostro va a trovare la figlia – manager a Bucarest, aggiungete tutto lo sdegno per la gelidona in carriera – e racconta in giro di averne affittato una, “la mia non telefona mai”. Parrucca, nome finto, sempre i denti da vampiro, si dedica al sabotaggio (e finalmente si ride). Autobiografico, confessa la regista.
MADEMOISELLE di Park Chan-Wook, con Kim Min-hee (concorso)
A noi l’ha reso un po’ meno avvincente la lettura del romanzo, spostato d’epoca e di continente ma riconoscibile. “Ladra” di Sarah Waters era un finto Dickens, nella Londra di metà ottocento (non l’unico della scrittrice, sulla scia di “Il petalo cremisi e il bianco”, bestseller di Michael Faber). Il regista di “Old Boy” sposa l’azione nella Corea del 1930, sotto l’occupazione giapponese. Una ricca ereditiera vive in un palazzo goticheggiante, prigioniera dello zio che la costringe a leggere ad alta voce i libri della ricca biblioteca. Una ladruncola che si finge cameriera punta con un complice all’eredità, via matrimonio e manicomio. Colpi di scena in confezione lussuosa e sensuale.
LA PAZZA GIOIA di Paolo Virzì, con Valeria Bruni Tedeschi (Quinzaine des Realisateurs)
Valeria Bruni Tedeschi entra in scena e fa innamorare (sospettiamo che abbia dato una mano a scrivere la sua parte, non pare lo stile Virzì - Archibugi). Ombrellino e foulard, dà ordini ai pazienti-giardinieri in un centro di salute mentale. Dov’è ricoverata anche lei, va da sé, anche se volentieri salta la scrivania e si finge dottoressa (più che credibile, competente, anche calorosa). Lo fa con Micaela Ramazzotti, la nuova arrivata muta e catatonica. Questa metà del film con trama materna, una fissa dopo Nanni Moretti, anche Marco Bellocchio che una volta le mamme le voleva uccidere ha girato “Fai bei sogni” dal best seller di Massimo Gramellini – riesce meno bene. L’altra è irresistibile.