La stupidità tollerabile è ampiamente superata nel film di Sean Penn
Scoop. Sappiamo perché Charlize Theron e Sean Penn si sono lasciati (lei aveva fatto dichiarazioni su “l’uomo della mia vita”, lasciando capire che le precedenti consorti Madonna e Robin Wright non avevano capito niente; lui le stava un passo indietro sul tappeto rosso, cortesia che alle star piace). Charlize Theron se n’è andata per colpa di “The Last Face”, ultimo film del regista presentato ieri a Cannes. Non erano finiti i titoli di testa – testa, non è un errore – che è partito il primo sghignazzo, sacrosanto. Una scritta sullo schermo paragona le atrocità accadute in Sierra Leone, Liberia e Sudan alla brutalità di quel che accade tra un uomo e una donna prima innamorati e poi delusi. Uno potrebbe alzarsi e andare via, essendo la dose di stupidità tollerabile in un solo film già ampiamente superata. Se rimane – con lo spirito di Totò che prende le sberle perché “voglio vedere dove vuole arrivare” – si accorge che le idiozie non finiscono mai. “Sean Penn mitraglia l’Africa con le sue buone intenzioni” è una delle battute più gentili che circolano. Lei appunto, è Charlize Theron e dirige un’organizzazione molto simile a Medici senza Frontiere.
L’ha fondata suo padre, e la poveretta si tormenta perché nessuno la guarda manco per sbaglio (vabbé, riferiamo, ambasciatore non porta pena). La vede benissimo invece il dottore spagnolo Javier Bardem (salvavite e sciupafemmine, scopriremo poi, aveva già una ragazza al campo, pure sieropositiva) provocando nella fanciulla un grave stato di confusione mentale. “Prima di incontrarlo pensavo di non esistere” e altre frasi che anche i romanzi Harmony ormai si rifiutano di stampare. Il passo cinematografico che si addice all’innamoramento è il rallentatore (lo sappiamo da centinaia di storie passionali). E dunque via con il ralenti ogni volta che si presenta l’occasione, e anche quando l’occasione non si presenta. Charlize avanza su uno sfondo di cadaveri con le mosche ronzanti, gambe amputate, parti cesarei senza anestesia, assalti con ogni tipo di arma, sacche di sangue che bastano solo per una persona, ospedali da campo luridi. Ogni tanto, giusto perché lo spettatore tiri il fiato, un bel ricevimento con champagne e abiti da sera, per raccogliere fondi da mandare ai bambini nell’Africa nera. Succederà anche fuori dal film: qualche ong come sponsor, la lacrimuccia, la possibilità di un selfie con gli attori in cambio di qualche soldino.
Non conoscevamo Sean Penn come cattivo regista – aveva girato “La promessa”, tratto dal racconto di Friedrich Dürrenmatt, e “Into The Wild”, entrambi più che corretti (andava più facilmente sopra le righe come attore). Accecato dall’impegno umanitario, riesce a gareggiare in sentimentalismo con Angelina Jolie. Alla fine del film, l’etichetta “pornografia del dolore” delimita il territorio (nel caso Netflix volesse proporlo ai suoi abbonati, la categoria sicuramente mancava). E purtuttavia l’operatrice umanitaria negli intervalli riesce a rimproverare il moroso: “Hai preso il mio corpo ma non conosci la mia anima”. Accecato, dalla possibilità di avere Sean Penn e Charlize Theron sul red carpet, soccombe anche il direttore del Festival di Cannes Thierry Frémaux: altro motivo non c’era per mettere il film in concorso. Fuori concorso, in proiezione specialissima, è arrivato invece “Peshmerga”, ultima fatica di Bernard-Henri Lévy. E di chi gli stira e inamida le camicie, deve essere stata una faticaccia trai guerriglieri curdi che combattono l’Isis. Thierry Frémaux presentandolo ha scomodato Hemingway, e chi siamo noi per dire che trattasi di documentario con la voce fuori campo e la prosa del filosofo, micidiali entrambe. Presente in sala – e molto applaudito – Gianfranco Rosi, Orso d’oro alla Berlinale per “Fuocoammare” (parlando di cinema, altrettanto micidiale, e pure lui con la sua parte di pornografia del dolore). Tra le Grandi Questioni destinate a restare senza risposta, la presenza in concorso di “The Neon Demon”, diretto da Nicolas Winding Refn (dopo gli applausi per “Drive” era miseramente franato con “Only God Forgives”). A leggere nel sunto per la stampa “vampire lesbiche” un po’ di spavento lo si prova. Poi leggiamo “rutilante mondo della moda” e il terrore cresce (“Personal Shopper” di Olivier Assayas, con Kristen Stewart che ritira gli abiti da Chanel e li porta a casa in motorino poteva bastare). Luci da discoteca, un po’ di bondage, sesso con cadaveri appena ricuciti, occhi di ragazza sgranocchiati come dolcetti. Resta tutto il tempo per pensare. Ma non dovrebbe essere la moda a prendere spunto dal cinema? Qui a Cannes sembra che il sogno più comune tra i registi che si considerano artisti sia riprendere una sfilata.