Perché vale la pena vedere "Marseille", anche se nessuno ne parla più
Disponibile su Netflix da due settimane, stroncata dalla critica francese e snobbata dal pubblico. Il nuovo che avanza contro il vecchio che straborda: Depardieu e Magimel simboli di una classe dirigente europea.
Tempo due settimane e nessuno parla più di “Marseille”, la nuova serie originale di Netflix, la prima, vera produzione europea (nel senso di: rivolta a), con attori, idee e ambientazioni francesi. Nessuno ne parla più perché, forse, troppo fedele al modello televisivo di noialtri, alla nostra concezione di intrattenimento e soprattutto, tasto dolentissimo, al nostro modo (leggi: al modo dei francesi) di fare politica. Dire che è brutta, sinceramente, non regge: siamo amanti del kitsch e dell’esagerato; le stroncature nette e pulite non fanno per noi.
Il protagonista è Robert Taro, sindaco di Marsiglia da quasi vent'anni, che ora si prepara ad andare in pensione per godersi i frutti del duro lavoro (un casinò sul lungomare, più o meno come sarebbe dovuto essere nell'Ostia di Suburra). Vuole lasciare tutto, testimone e redini del potere, al suo secondo, “il nuovo che avanza”: Lucas Barres, interpretato da un altro volto-simbolo della settima arte francese, Benoit Magimel (già premiato a Cannes per il suo ruolo ne “La pianista”). I piani di Taro, però, vengono sconvolti quando Barres decide di ribellarsi e di passare all'opposizione. E come in una storia già vista altre dieci, cento, mille volte – e non solo in tv o al cinema, ma anche nella vita vera – il vecchio si scontra con il nuovo. Rottamati contro rottamatori.
“Marseille” è una serie che pecca di tante, tantissime cose (i tempi tra una battuta e l’altra, le inquadrature sospese, la plasticità di certe espressioni); eppure è innegabile come Dan Franck, che l'ha creata, si sia ispirato al piccolo schermo francese (e non a caso molti hanno accostato “Marseille” alla fiction di Canal+). Ed è altrettanto innegabile come Netflix, che ha sempre fatto del mercato globale il suo unico obiettivo, si sia finalmente “abbassata” alle realtà locali. Come a dire: francesi, questo è un regalo per voi. Il problema, però, è che i francesi non avevano voglia di sentirsi dire che è questa – questa qui, come “Marseille” – la loro televisione. Loro, nazionalisti della prima e dell’ultima ora. Gerard Depardieu, ingrassato, lento e sudaticcio, è perfetto – e non è un'esagerazione – nel suo ruolo: centra l'obiettivo. Colpisce duro e a fondo; inizia con una scena di spalle, chino, a pippare nel dietro le quinte della vita mondana. Sullo sfondo della bellissima Marsiglia, tutta mare, porticcioli e case di pietra antica, si muovono la mala e la violenza, ci sono gli interessi di pochi che schiacciano gli interessi di molti, e la politica che si traveste da clientelismo.
“Marseille” non è certo la “House of Cards” europea; Depardieu non è Spacey, e non c’è nessuna attrice tra le comprimarie paragonabile a Robin Wright (da segnalare tuttavia Stéphane Caillard, che interpreta la figlia-giornalista, quindi doppiamente coinvolta, di Taro). Questa non è la politica, né tantomeno la storia di Washington, dei repubblicani e dei democratici; è una storia molto più locale, concentrata e semplice. Una storia che si arricchisce dello scontro tra nord e sud (che in Francia, rispetto all’Italia, è ribaltato), e pure della questione multiculturale e delle periferie piene di immigrati e francesi di seconda, talvolta anche terza generazione. Otto puntate, meno di cinquanta minuti l’una, difficili – per la prima volta – da seguire tutte insieme; ma “Marseille” è così, e a modo suo segna un cambio di tendenza tra le produzioni Netflix: qualità discutibile, ma la prima vera occasione per il mercato europeo di farsi vedere. Aspettiamo, ora, “Suburra”.