Saviano, giù le mani da “Un posto al sole”
Saviano & Saviani. La Napoli di “Gomorra” e quella di “Un posto al sole” per aggiornare la questione meridionale ai tempi delle serie tv. Roberto Saviano lancia la sfida a Michele Saviani, il personaggio interpretato da Alberto Rossi nella soap più amata dagli italiani. Qual è dunque la narrazione più giusta per il sud: il pittoresco di Rai Tre o il crime di Sky Atlantic? Villa Volpicelli di Posillipo o le Vele di Scampia? L’edulcorazione defilippica di Otello e Teresa o la spietatezza messicana di Ciro e Gennaro? “Napul’è mille culùre”, “Napul’è mille paure”? L’anno scorso, a ridosso della prima stagione di “Gomorra”, Saviano marcava le distanze del suo brand da tutta la fiction civile della Rai. “Guardate ‘Homeland’, guardate ‘24’… quello sì che è uno smontaggio del potere degno di Shakespeare”, diceva con l’indice accusatorio e antitaliano puntato verso Beppe Fiorello. Lui se la prese a male: “Racconto storie di denuncia sconosciute ai più, ho lottato contro la censura, ho fatto arrabbiare i magistrati”. Ovvero, sulla qualità se ne può parlare ma l’impegno c’è. Ora, giunti alla seconda stagione, Saviano alza il tiro. In un’intervista al Corriere, espone la teoria della superiorità etica della sua fiction: “‘Gomorra’ è la realtà che i politici negano, chi cerca il Bene guardi ‘Un posto al sole’”. Qui però le cose si complicano. Perché noi sono anni che siamo in apprensione per l’escalation di violenza di “Un posto al sole”, che calca la mano su camorra, ricatti e estorsioni al posto di corna, figli e innamoramenti. Dov’era Saviano nel 1998, quando con una serie di puntate efferate la camorra tentava di impadronirsi dei cantieri Palladini e alla fine uccideva Cristina che moriva tra le braccia di Alessandro? Si insinua il sospetto che le vittime della camorra di Sky Atlantic siano vittime di serie A. Lo sa Roberto Saviano che Michele Saviani, radiocronista d’assalto, paladino del laicismo e coscienza civile di “Un posto al sole”, è giunto a Napoli per scoprire la verità sul padre giornalista ucciso tanti anni prima dalla camorra (poi vabbè s’è buttato sulle contesse Palladini, mamma prima e figlia poi, ma è un’altra storia).
Dal 1996 a oggi, con oltre quattromilacinquecento puntate alle spalle, “Un posto al sole” ha battuto parecchi record della televisione italiana. E’ la soap più longeva. Fa ascolti straordinari. E’ una macchina industriale impeccabile. E’ il sogno di ogni produttore. FreamantleMedia, la società che lo produce con la Rai, sbandiera come fiore all’occhiello dell’azienda la qualità di “X Factor” con cui ha sedotto persino Vendola però guadagna di più con “Un posto al sole”. Funziona perché è scritto bene. Ha i migliori cliffhanger della tv italiana. Succedono cose al ritmo a cui devono succedere in una soap scritta bene. C’è il golfo da cartolina ma anche la suspense che inchioda milioni di spettatori, con ampi strascichi sulla pagina Facebook ufficiale dove i fan dibattono di prove del Dna, corna e paternità incerte, ma anche matrimoni gay, disoccupazione giovanile, criminalità. Il tutto realizzato non per far saltare sulla poltrona i cultori del Grande cinema rifatto in tv, né per “smontare il potere”, ma per un pubblico che torna a casa la sera, accende su Rai Tre e si mette a seguire più o meno attentamente quel che succede a Posillipo. L’ispirazione viene da “Neighbours”, format australiano che raccontava le vicende di alcune famiglie con ambientazione in un’immaginaria “Ramsay Street”.
Da noi gli autori lo calano in un contesto sociale non solo più riconoscibile ma più “impegnato”. La pagina Wikipedia di “Un Posto al sole” riporta un elenco dei “temi sociali trattati” in vent’anni di soap che va dalla “a” di “abbandono degli animali” alla “v” di “violenza in famiglia”, passando per “ecomafia”, “HIV”, “incesto”, “riabilitazione dei detenuti”, “immigrazione”, persino “guida senza patente e omissione di soccorso”. Ma l’impegno migliore è aver innestato la macchina produttiva di “Un posto al sole” nel Centro produzione di Napoli, rilanciando e riqualificando una sede Rai storicamente importante che versava in una crisi profonda, abbandonata a se stessa, priva di progetti e investimenti. Certo, siamo lontani dalla superiorità inarrivabile di “Gomorra”, vanto di quelli che non guardano la tv. “E’ bella perché sembra una serie americana”, come dicono tutti; “è la realtà quotidiana del sud”, come dice Saviano. “Mostriamo l’infamia del potere, il Male dal punto di vista del Male”, spiega lo scrittore quando qualcuno solleva il rischio di emulazione che possono innescare i suoi eroi negativi. Dice di portare su Sky “la lezione della storia meridionale di Gaetano Filangeri, di Mario Pagano, da Giordano Bruno a Antonio Genovesi”. “Un posto al sole” al massimo fa propria la lezione del Frecciarossa che ci porta da Napoli a Milano in quattro ore, quando non fa ritardo. Un racconto prova a includere il sud al resto del paese facendo leva sul desiderio di normalità, oltre che sull’irredimibilità dell’inferno patinato di “Gomorra”. Non sarà Shakespeare, ma funziona.