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Buone ragioni per guardare il cielo stellato e farsi qualche domanda

Antonio Pascale

Guardando il cielo siamo migliori di quello che siamo, meno attenti al contingente, aperti, cosmopoliti. Volete la prova? C’è il libro di Amedeo Balbi, “Dove sono tutti quanti?”. Un viaggio che inizia con questa domanda: ehi, c’è qualcuno lì fuori? Cos’è questo silenzio?

L’abbiamo fatto un po’ tutti, no: alzare gli occhi al cielo, dico. Come si fa a resistere a una notte stellata? Tuttavia, non tutti ce la fanno. A reggere. Quanti di noi abbassano la sguardo? Sì, c’entra la difficoltà ad orientarsi, ma mica è solo quello. Dai, spesso si prova timore e reverenza. E’ chiaro: guardi il cielo e ti vengono a raffica un po’ di domande. E come se non bastasse, le prime risposte sono pure inquietanti. Guardare il cielo stellato ha delle controindicazioni, una su tutte: la tua identità vacilla, tremi per “un non so”. Forse lo sguardo verso la Via Lattea non è una semplice occhiata al cielo, no è l’ultimo (e dunque il primo) anello di lunga catena: un pensiero filosofico che da Francis Bacon, a Hume, Arthur Schopenhauer e poi, a Friedrich Nietzsche, e anche Marx, Darwin e Sigmund Freud, e insomma, questa corrente filosofica mette in discussione il concetto di io. Nietzsche, per esempio, è quasi crudele su quest’aspetto: l’io non è qualcosa che è dato, ma è qualcosa che è fatto, e l’uomo viene giocato dal suo io. Questo gioco ha come risultato l’illusione dell’agire – la cultura del sospetto, avrebbe poi sintetizzato Paul Ricoeur. E Darwin? Con Darwin comincia una critica sistematica alla concezione idealistica dell’individuo e inizia anche la demolizione della coscienza: siamo figli di scimmie antropomorfe e cugini degli scimpanzé. Condividiamo con gli scimpanzé il 98,5 per cento dei geni, con un banano circa il 60, siamo un prodotti del grande cespuglio dell’evoluzione, da un’unica cellula procariotica ecco l’onda dell’evoluzione, lunghissima e casuale – niente di programmato, non c’è meta, non c’è una finalità.

 

Oppure forse pensiamo che il fine del creatore, o di un eventuale designer sia quello di creare vita? Tuttavia anche qui dobbiamo constatare con imbarazzo che nei 4,5 miliardi di esistenza, il nostro pianeta è stato sottoposto a un fuoco incrociato di devastazioni ambientali ad opera di vulcani, terremoti, cambiamenti climatici, tsunami e asteroidi, tutti con questa spiacevole tendenza: centrare e devastare la terra, causando estinzioni di massa: risulta scomparso il 99,9 per cento delle specie finora vissute. Forse si tratta di umana arroganza, ritenersi parte esclusiva di un progetto – e servirlo, lodarlo, pubblicizzarlo. Eppure per il momento osservando la storia evolutiva dobbiamo concordare sul fatto che gli eventi sono molto casuali, creano e distruggono, un po’ alla cieca. Forse è proprio per questo motivo che non reggiamo lo sguardo al cielo, appunto, non è una semplice occhiata, ma un’altra, efficace, mazzata contro la corazza del nostro io. E molliamo, preferiamo guardare altro, qualcosa di piccolo e contingente, che ci rafforza nella convinzione (e illusione) che siamo qui e ora, stetti alla nostra identità. Ma non tutti mollano. Ci sono persone con uno sguardo più ingenuo, forse meno problematico, o meglio, più cosciente dei nostri limiti e dunque più forte e penetrante. Questi uomini guardano il cielo e non si spaventano, sanno che l’uomo è sì piccola cosa, ma non vale la pena lagnarsi più di tanto. Va bene, la crisi dell’io, l’illusione del libero arbitrio, ma forse se c’è una vita sola è bene (è quasi un nostro dovere di specie) andare incontro al mistero (dell’universo, dell’io, della coscienza) con umiltà e metodo. L’uomo possiede buoni strumenti di osservazione, con i quali via via ho ottenute misure più precise. E’ poco, è tanto? Che importa. E poi guardando il cielo siamo migliori di quello che siamo, meno attenti al contingente, aperti, cosmopoliti.

 

Volete la prova? C’è il libro di Amedeo Balbi, “Dove sono tutti quanti?” (Rizzoli). Un’indagine, un viaggio che inizia con questa domanda: ehi, c’è qualcuno lì fuori? Su quei pianeti offuscati dalla luce delle stelle. Cos’è questo silenzio? Dove siete tutti? E dalle prime pagine c’è un piacevole (e narrativamente) interessante sdoppiamento. Troviamo Amedeo Balbi bambino che guarda il cielo – come me, come noi, come tutti- e non si spaventa, anzi, si fa domande. Sì all’inizio sono quelle classiche: gli alieni, esistono? In fondo, quando Amedeo bambino comincia a guardare il cielo, sono gli anni di “Guerre Stellari” e di “Et” (il libro in effetti è anche una ricostruzione dell’immaginario fantascientifico anni Settanta-Ottanta). Dunque, quell’Amedeo bambino è così simile a noi, ingenuo e desideroso, ma diversamente da noi, non intende mollare lo sguardo. Meno male, questo ci rassicura: c’è un bambino sotto il cielo infinito che resiste, e noi con lui. Ed è curioso, allora interviene Amedeo adulto che decide di accompagnare se stesso – e noi che leggiamo – per la volta celeste. Perché? Per provare appunto rispondere a questa domanda: siamo soli o no? Prima di provarci, dobbiamo individuare alcuni insiemi e sottoinsiemi, misurare, usare la fisica e la chimica. Comincia così un viaggio meraviglioso, piacevole, narrativamente efficace, grazie al quale – cambiando il punto di vista – non ci chiediamo perché siamo qui, ma come siamo arrivati fin qui. Dal perché al come: un cambio di passo, di paradigma, e abbastanza efficace. Ci scommetto, dopo la lettura, la prossima estate non cercherete solo le stelle cadenti, e dato per scontato la crisi dell’io eccetera, esprimerete desideri meno contingenti, su larga scala.

 

Oggi, 26 maggio, alle 18.30 Antonio Pascale dialoga di “Dove sono tutti quanti?”, con l’autore Amedeo Balbi al Circolo dei lettori di Torino

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