Fammi il dinosauro – Il Figlio, lo speciale di Annalena su genitori e figli
Come fare in modo che il figlio diventi una persona di successo nella vita e nel lavoro, che non sia un depresso e/o un fallito, che non si perda durante l’adolescenza e non si trasformi in un adulto impresentabile in società e magari anche incapace di trovare lavoro? Tutti i genitori ci pensano, ognuno trova (o crede di trovare) il modo per dare al bambino o alla bambina i migliori strumenti per evitare il disastro. E magari si pensava che fosse utile, se non indispensabile, per favorire il successo da grandi, scegliere la scuola giusta, preoccuparsi che il figlio sappia che cos’è un libro, fargli studiare l’inglese, fargli fare uno sport, fargli frequentare i coetanei, farlo viaggiare, fargli respirare aria buona, ascoltarlo e consigliarlo al primo insorgere di un problema. E si pensava anche che sì, magari non è grave se la sera, stanchi, si “contratta”: leggo la favola, ma truccarsi tutte e due da fata all’ora della nanna no; gioco con il camper di Barbie, però poi si spegne subito la luce; ti aiuto a fare il disegno, ma allora si legge solo il libro corto.
Poi, sul New York Times (copertina della Sunday Review), la notizia che spiazza, basata su serissimi esperimenti condotti da scienziati dell’Educazione e psicologi dal 1986 a oggi, in famiglie disagiate dei sobborghi giamaicani e statunitensi (ma anche in classi d’asilo e in famiglie più abbienti): il successo di un figlio, dice fin dal titolo l’articolo di Paul Tough, si costruisce “istruendo” i genitori a ritagliarsi momenti, anche brevi ma costanti, per giocare con lui (ogni giorno, fin dalla nascita e per i primi cinque, sei anni di vita), in modo da rendere l’ambiente dove si cresce il più possibile libero da stress e pieno di calore. Perché sono l’instabilità e la noncuranza emotiva a minare la capacità di concentrazione, di apprendimento, di sopportare la frustrazione, di darsi obiettivi e farsi strada nella vita. E’ il risultato dell’esperimento condotto nel 1986 nei sobborghi di Kingston, in Giamaica, dai ricercatori della University of West Indies su 129 neonati e bimbi in età prescolare e sulle loro famiglie, suddivise in tre gruppi. Il primo gruppo di genitori aveva ricevuto, nel corso di due anni, una visita a settimana da parte di operatori capaci di consigliarli in direzione dello “spendere del tempo” a “giocare con i figli”, in attività a tu per tu con il bambino. Il secondo gruppo di genitori aveva ricevuto un chilo di alimenti altamente nutritivi ogni settimana. Il terzo gruppo nulla. I ricercatori avevano poi seguito bambini e genitori negli anni successivi, fino all’età adulta, riscontrando che i bambini con migliore Q.I. e resa scolastica erano quelli con i genitori allenati a giocare con loro (e, da adulti, quei bimbi guadagnano il venticinque per cento in più di quelli degli altri gruppi).
Alla stessa conclusione sono giunti, in tempi più recenti, gli studiosi delle Università del Delaware, di Philadelphia e dell’Oregon, esaminando gruppi di famiglie non abbienti ma anche insegnanti e alunni della scuola materna, arrivando a dire che “formare i genitori”, incoraggiandoli a stabilire una connessione emotiva attraverso l’attività ludica, rinforza il bambino, la sua fiducia in se stesso e lo sviluppo delle “abilità non cognitive”, fondamentali per reggere, poi, gli urti dell’ambiente lavorativo e interpersonale. Bisogna far capire a genitori e insegnanti che non è tanto il “contenuto” dell’insegnamento o dell’accudimento a fare la differenza, quanto l’atteggiamento di calma e disponibilità. Eliminato il clima di conflitto alunno-insegnante (in classe) e quello di stress (in famiglia), il bambino si abitua a concentrarsi e a risolvere da solo i piccoli problemi che si presentano, e a interagire con gli altri facendosi valere, ma senza aggredire (rudimenti di autocontrollo?). Al contrario, se l’atmosfera durante i primi anni di vita, a scuola e a casa, è “caotica e non rassicurante”, scrive Paul Tough sul Nyt, il bambino assorbe un’attitudine allo stress che “può essere distruttiva a livello neurologico” e rendere più difficile il raggiungimento di “una stabilità emozionale” e “la resistenza” all’inevitabile disappunto per il non raggiungimento di un obiettivo o per il mancato soddisfacimento di un desiderio”. Si chiama “modello bidirezionale di auto-regolazione”, ed è il modello che innesca “il circolo virtuoso” verso il successo, anche attraverso il rafforzamento (con lodi e con l’esempio) dei comportamenti positivi invece della punizione di quelli negativi, rendendo il più possibile fissa la routine quotidiana per infondere sicurezza al bambino che, “non sentendosi minacciato”, comincia da solo a “regolare gli impulsi distruttivi”.
E sì, abbiamo capito: gli adulti, per quanto si dannino a trovare le scuole e le attività giuste, se non passano del tempo “ludico” col figlio non hanno garanzie di spianargli la strada nella vita. Il motto è: “Gioca con tuo figlio e non fare l’isterico” (a noi lo dicono di solito i nonni e gli amici senza figli). Che chi ha sempre diffidato delle madri (anche insopportabili) che organizzano la caccia al tesoro o il picnic e poi si travestono da dinosauro debba ricredersi? O le madri suddette sono “madri tigre” sotto mentite spoglie che vogliono diventare ricche per interposta persona, visto che il figlio per il quale si sono travestite da dinosauro diventerà di sicuro capitano d’azienda milionario? (Qui intanto si spera non sia tardi per la via di mezzo: leggere favole illimitatamente la sera e farsi truccare da fata anche a mezzanotte).