Giogio Albertazzi e il suo imperatore
Ripubblichiamo l'articolo del 6 gennaio 2007 nel quale Stefano Di Michele chiacchierava con Giorgio Albertazzi a proposito del diciottesimo anno della rappresentazione teatrale di "Memorie di Adiano", nella quale interpretava l'imperatore romano.
“Qualsiasi felicità è un capolavoro”.
Marguerite Yourcenar, “Memorie di Adriano”.
"No, non mi stanco”, dice Giorgio Albertazzi. “Non mi trucco. Mi metto quella palandrana bianca addosso e vado verso la mia avventura”. E allora un’altra volta, l’ennesima volta, certo non l’ultima volta – anche se l’ultima volta prima o poi arriverà. Ma intanto sempre giunge prima il fantasma dell’Imperatore che prende il corpo dell’attore, lo costringe ancora nella paladrana bianca e lo ricaccia in quel vuoto scenico – tra ombra e silenzio, folla e parole – a rievocare i suoi, di fantasmi. E’ così dal 1989. Ormai per seicento volte quella palandrana è passata da un corpo dissolto in un tempo che è di millenni a un corpo che lì dentro – tunica ampia, bianca, senza forma, quasi ali: una tunica per chi veste da fantasma – invecchia (seppur bene) e assorbe gli stessi dolori e gli persino gli stessi malanni che spinsero l’Imperatore oltre il confine della vita. Ride Albertazzi allargando le braccia: “Uno vede il mio corpo e dice: tu hai cinquant’anni. Anche il medico lo dice. No, rispondo, non ne ho cinquanta. Di anni ne voglio sessanta, come Adriano”. Questo dice l’attore. Poi l’Imperatore, in scena, coperto dalla lunga tunica bianca, dice: “Le gambe non mi sostengono più nelle lunghe cerimonie di Roma; a volte mi sento soffocare e ho sessant’anni. Sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei morto annegato. Morirò a Tivoli o a Roma, tutt’al più a Napoli, una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Il problema è tutto qui”. Secondo Albertazzi “a una certa età ognuno diventa somatologo”, e lui allunga le mani a sentire la solidità di una spalla, batte il palmo su una coscia. “Ecco, da cinque anni questa gamba sinistra non è come prima. Ancora di più mi avvicino ad Adriano: ho sessant’anni, le gambe non reggono… Questo tormentoso, terribile fare i conti col proprio corpo che non risponde più”. In scena sarà così: “Questo corpo, questo otre di mali, di ambizioni, di sogni non è molto più solido e consistente delle ombre”. Prima della scena è così: “Questo corpo usato, strapazzato, che ha detto sempre signorsì, oggi vorrebbe dire: ecco, mi fermerei un attimo”.
Adesso fanno appunto diciotto anni che l’Imperatore e la sua voce convivono. Giorgio Albertazzi è quello straordinario attore che tutti conoscono. Adriano – Hadrianus Augustus – fu l’uomo che governò Roma dal 117 al 138 dopo Cristo, grandissimo tra i saggi Antonini. Oltre cinquant’anni fa Marguerite Yourcenar scrisse “Memorie di Adriano” (Einaudi editore) – uno di quei libri che forse capita di leggere per caso e che poi magari resta dentro tutta una vita – da cui Jean Launay ha tratto la riduzione che Albertazzi porta in scena da quasi due decenni, con la regia di Maurizio Scaparro. Si può pensare: se un personaggio porta via così tanto del tempo della vita di un attore, era certo destino, forse pure predisposizione viene da dire. Mica vero. “Ho conosciuto Adriano quando nell’89 Scaparro mi propose di metterlo in scena. Non avevo letto il libro della Yourcenar. Anche lei, che straordinario personaggio umano… Mi ha fatto enorme impressione, mi è piaciuta moltissimo. Il mio modo di affrontare le cose è più con l’autore che con il testo”. Un personaggio come un altro, magari un po’ più speciale di altri, certo non come Amleto, il fantasma scenico che fino a quel momento aveva occupato la mente di Albertazzi. “Né con Adriano né con Amleto i conti sono chiusi. Di solito, i personaggi li consumo facendoli in teatro, due o tre o quattro mesi sulle scene, e i nomi non mi interessano più”. Invece l’Imperatore romano ha preso pian piano spazio al principe di Danimarca e alla vita di Albertazzi. “Parlo io per lui”. La tunica bianca è di nuovo pronta: mercoledì prossimo, all’Argentina, Adriano tornerà con i suoi fantasmi, e Albertazzi con i suoi. Che poi, magari, sono gli stessi. E ciò spiega il tempo, l’amore quasi carnale tra l’Imperatore e il suo attore. “Ogni sera con Adriano è una sorpresa. Non so neanche come faccio. Una zona scura, nella quale penetrare. Insieme a un’attesa piena di timore”. Si chiede l’Imperatore in scena: “Da dove vengono queste ombre? Vengono dai limbi della mia memoria o da quelli di un altro mondo?”. Spiega l’attore ancora spoglio della tunica bianca: “E’ come una zona aurea dell’espressione, mi consente di esprimermi, di dire quel che sono. Forse più di Amleto, che ho messo in scena quattro volte”. Un sospiro: “Quando superi la semplice citazione e ti racconti, è un brivido. Dici: le gambe non mi sorreggono più, come fa Adriano all’inizio, e sei tu che parli delle tue stesse gambe ma per un miracolo alchemico sei anche Adriano che parla delle sue”.
Albertazzi è nella sua stanza di direttore artistico del teatro Argentina. Stanza, poi, è troppo. Stanzetta, piuttosto. Tre persone ed è ingombra. Meravigliosa, però, tra vecchie rovine che stanno nel cuore del teatro. Due poltrone fantozziane, una nell’aspetto, l’altra nella pratica, una sedia minuscola, una scrivania piccina picciò. Un peso, questo Adriano? “Non mi è mai pesato. E magari potessi credere che Adriano non sia solo opera di mediazione medianica”. Quando cominciò, appunto nell’89, cominciò a Villa Adriana, la residenza che l’Imperatore aveva fatto costruire vicino Tivoli, dove passò gli ultimi anni della sua vita, “preso da accessi di tristezza e misantropia”, è scritto sulla Treccani. Una recita all’aperto, tra i giardini e le fontane e le ombre del vecchio Imperatore. “La sera della prima c’erano sette camionette della polizia, perché era scoppiata mediaticamente la vicenda della mia partecipazione alla Repubblica sociale, anche se avevo già raccontato tutto in ‘Un perdente di successo’. Temevano incidenti. Non mi pento di niente: detesto il pentimento in sé, troppo facile pentirsi. Mi riesce invece di dire: ho fatto la cosa sbagliata, ho fatto qualcosa che non rifarei. Ma pentito no, mica facevo il brigatista nero…”. Tra sbirri intorno e pretoriani sul palco, la lunga storia tra Adriano e Albertazzi cominciò. “Un trionfo inimmaginabile”. Ai quattrocento spettatori iniziali, altri se ne aggiunsero ai bordi. Negli anni, trionfo nel mondo: Atene, Madrid, Praga, Zurigo… “C’è un mistero dentro”. Parla, Albertazzi, di Adriano. A un certo punto le parole dell’attore che sta per andare in scena diventano quelle dell’Imperatore in scena – le une indistinguibili dalle altre – componibili e insieme insostituibili.
C’è tutta la bellezza e l’amore e il dolore e la vecchiaia e la morte all’orizzonte, nella riduzione che Launay ha fatto del romanzo della Yourcenar. Un po’ più in ombra, la parte sul potere, la gestione imperiale. “Ha semplificato gli intrighi di corte. La scelta mi trova d’accordo: aver privilegiato la bellezza, l’amore struggente per Antinoo è la parte più bella”. Ma non si convive insieme, neanche sul palco, senza assomigliarsi un po’ e, infine, senza diventare una parte stessa dell’altro. La passione per l’essere amato e lo strazio per il suo suicidio. Il dolore di un’assenza irrimediabile, ecco, il ricordo di quel “mutare dal colore del gelsomino a quello del miele”. E’ il fantasma più presente, Antinoo, danza dietro la tunica bianca, le dà aria come se lui fosse vento e quella vela. Evoca, la Yourcenar, il momento in cui “ogni particella d’un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto”. Evoca, tra le lacrime, Adriano: “Sono stato padrone assoluto una volta sola, e di un solo essere. Ma i volti che noi cerchiamo disperatamente ci sfuggono: è sempre un solo istante…”. Evoca, nella sua stanzetta, Albertazzi: “Forse qualcosa capitato anche a me. Questa parte è talmente forte che, contrariamente a ogni abitudine, a ogni tecnica e a ogni prassi teatrale, mi prende un groppo alla gola di cui quasi mi vergogno. C’è tutta l’idea di bellezza e la consapevolezza che si sta declinando. Terribile e straziante, la constatazione che non siamo dei: l’uomo va, va… Antinoo è la bellezza”. L’Imperatore in scena evoca cavalli, l’attore non ancora in scena annuisce: “Antinoo è bello come un bellissimo cavallo. Dovessi andare su un altro pianeta, come immagine della bellezza porterei proprio un bellissimo cavallo. Ecco il tema: la bellezza. La bellezza per Adriano è lontana e vicina, più è prossima e più è inafferrabile. Identico al suo, il mio concetto di bellezza”. Dice Albertazzi che quello che va in scena “è più un’anima che un Imperatore”, e che in qualche modo lui è arrivato così vicino a quell’entità indefinibile sopravvissuta alla polvere di duemila anni anche attraverso una “ricerca metafisica e spirituale, momenti di iniziazione, come è negli anni Sessanta”. Anche Adriano, in scena, viene “a conoscenza di strane divinità”, e il suo attore dice che lui “amava straordinariamente l’astronomia, si metteva di notte a guardare le stelle”. Poi, è l’Imperatore che ancora parla e rievoca: “Ho cercato di aderire al divino sotto molte forme; e ho conosciuto molte estasi. Ve ne sono di atroci; altre, d’una dolcezza struggente”. E nelle biografie della Yourcenar si racconta di metodi presi dalla metempsicosi e dall’autoipnosi, per provare a raggiungere il suo Imperatore. “In una sera gelida, sulle rive dell’Atlantico, nel silenzio quasi polare dell’isola di Mount Desert, negli Stati Uniti, ho cercato di rivivere il calore, l’afa di un giorno di luglio del 138 a Baia, il peso del lenzuolo sulle gambe appesantite e stanche, il rumore quasi impercettibile di questo mare senza marea che giunge a volte a quest’uomo occupato dai rumori della sua propria agonia”. La scrittrice fa parlare l’Imperatore, che parla sul palco per bocca dell’attore, che qui in questa stanzetta, nell’attesa di far ricadere sulle spalle la tunica bianca, parla di sé con le parole dell’Imperatore. Anzi, con i silenzi. Ci sono molti silenzi, in Adriano. La Yourcenar dice che “ho fatto sempre più silenzio in me (…) per ascoltare parlare quest’uomo”. E Albertazzi: “Mi preoccupo sempre di trovare uno stato in cui muovermi. Le battute mi interessano relativamente. Mi interessa il suono delle parole. Il silenzio delle parole”. Spiega ancora: “Sono i suoi silenzi che mi interessano. In scena, ho due sedili ai lati del palcoscenico, e due scale. Li ha fatti mettere Scaparro. ‘Se ti stanchi’, mi ha detto. Ogni tanto, durante lo spettacolo, mi siedo. Ma non per stanchezza: per pensare”.
“Il ritratto di una voce” – ecco Adriano in scena. Anche Maurizio Scaparro, che di regie ne ha fatte tantissime, e tantissime importanti, dice che “è qualcosa di magico: non è teatro, è metateatro. La riscoperta della parola, e insieme del silenzio. Emozionante. E Albertazzi, attore pensante, che Dio lo salvi. Ci siamo divertiti”. L’anima di Adriano come di ognuno, “fatta della stessa sostanza delle ombre”, i ricordi e i fantasmi di ognuno, gli déi o il Dio solo o semplicemente il placido nulla. Citano Flaubert sia la Yourcenar che Scaparro che Albertazzi: “Quando gli déi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. Sospira l’attore: “Magari potessimo tornare a quel periodo, al fascino di quel passaggio. Sono sette volte laico, ho una forte tensione negativa nei confronti delle religioni. L’idea di Dio è insopportabile, lancinante, terribile. Mi viene in mente quel prete che diceva: ‘Soffri perché Dio ti ama’, e il bambino che risponde: ‘Fallo smettere!’…”. Tra pochi giorni Antinoo tornerà a danzare attorno alla sua tunica bianca, Plotina gli sistemerà il mantello rosso quando dovrà pronunciare l’orazione funebre in onore di Traiano, ogni fantasma ritroverà il suo posto. “L’impero l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto. Antinoo era greco”, tornerà a dire l’Imperatore. “L’elemento medianico: è lì la grandezza del testo”, per Albertazzi. E le sue gambe saranno ancora quelle di Adriano, similmente fragili, la sua testa, il suo sguardo dolente su un corpo che danza. “Non troviamo altre opere così. Nell’Iliade e nell’Odissea sono eroi, a metà tra l’uomo e Dio. Adriano invece è solo un uomo: che ha male alle gambe, che ci vede meno, che soffre per amore”. E che si sente “responsabile della bellezza del mondo”, ma sa pure che il caos è alle porte, e almeno si rallegra della lucidità rimasta, così da aver evitato “quella atroce assenza di desideri”. Appunto, “entrare nella morte ad occhi aperti”. E “ad occhi aperti” cercò di fare la Yourcenar. E dice lo stesso Albertazzi, tanto che una voce riprende l’altra, una si somma e l’altra si aggiunge, unica e infine inestricabile. “Più passa il tempo e più mi avvicino alla sua età ultima. Come Adriano, non ho paura della morte: ci converso, cerco di farle la corte, diceva Garcia Lorca”. Confessa Albertazzi che a volte vorrebbe separare il suo destino da Adriano, l’Altro della sua vita, il Doppio perfetto, “sto pensando di finirlo a Villa Adriana, tutto è cominciato lì: non vorrei aspettare di consumarmi facendolo, ma lasciarlo ancora quando posso dire: cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”. Chissà se mai accadrà. Un giorno Oliver Stone gli disse: “Se facessi Adriano al cinema lo farei fare comunque a te, magari in latino”. Difficile liberarsi dall’amore per un fantasma, quasi quanto quello per un essere di cui si poteva accarezzare la pelle prima che fosse solo ombra danzante. “Non l’amavo di meno, l’amavo anzi di più”, eppure “non c’è una carezza che giunga fino all’anima”. Confida Albertazzi: “Una volta ho detto che sulla mia tomba avrei voluto una frase di Rimbaud. Ora vorrei metterci: ‘Per molti anni fu Adriano’”. Perché poi, qualsiasi capolavoro è anche una felicità.