Per gli amanti del vintage, arriva nelle sale "Un americano a Parigi" magnificamente restaurato

Mariarosa Mancuso
Il film è magnificamente restaurato dalla Warner Bros, ma non c’è verso. Appena i personaggi si parlano cantando, possiamo contare solo sulla nostra conoscenza dell’inglese

“Se non puoi dipingere a Parigi, rinuncia alle tue ambizioni e sposa la figlia del capo”. “‘Non avere talento’ suona meglio in francese”. Cose che si imparano guardando “Un americano a Parigi”, girato nel 1951 da Vincente Minnelli (nelle sale dal 9 giugno per festeggiare i 65 anni). Per i blogger là fuori convinti che il cinema sia nato con Quentin Tarantino, trattasi di spettacolare musical con Gene Kelly e Leslie Caron, dal poema sinfonico di George Gershwin. A beneficio del film, il fratello Ira aggiunse le parole che i sottotitoli sdegnosi non traducono, a differenza dei dialoghi e delle voci fuori campo. Tanto per ribadire il luogo comune che i numeri musicali siano messi lì per intervallo, non per portare avanti la trama o ricamare su un’idea.

 

Il film è magnificamente restaurato dalla Warner Bros, ma non c’è verso. Appena i personaggi si parlano cantando, possiamo contare solo sulla nostra conoscenza dell’inglese. Siamo a Parigi, e il regista è americano. Quindi ogni soffitta ha la vista sulla Tour Eiffel (l’aveva anche il tugurio del ratto Rémy in “Ratatouille”). Ogni inquadratura è arredata con fiori, baguettes, tavolini da caffè. Gene Kelly è vestito da pittore squattrinato (un altro attore in costume da Renoir litiga con il gendarme sulle rive della Senna) ma appena comincia a ballare diventa elegantissimo.

 

Tutto in bianco che neppure Tom Wolfe – pantaloni, maglia, e pure calzini infilati in scarpe nerissime. Vive nella più classica delle soffitte, ammirevole per le sue audaci soluzioni. Dal giaciglio si apre la porta al postino, poi il tavolaccio viene sollevato fino al soffitto, dallo sgabuzzino escono una sedia e un tavolino (dovrebbe esserci il catino con la brocca, ma non è certo).

 

Arriva a vedere i quadri prima una studentessa, cacciata via il malo modo, e poi una ricca signora con autista, accolta con più favore perché invece di criticare i dipinti se li compra. Nel frattempo, al caffè, un giovanotto tesse le lodi di una certa Lisa che gli ha rubato il cuore, e a ogni aggettivo Leslie Caron si fa un balletto (uno con i libri, fantastico, tutto nero e giallo, mentre l’amico curioso chiede “ma tutte quelle letture non la metteranno di cattivo umore?”).

 

E’ uno dei grandi balletti “artistici” del film. Nel senso che si svolgono con celebri quadri come sfondo, e quando fan festa gli studenti dell’accademia il ballo in bianco e nero è sfarzoso come il ricevimento di Truman Capote al Plaza Hotel nel 1966. Per i numeri sentimentali, tornano utili le rive della Senna. Se poi avete preso gusto al cinema vintage – la moda italiana cominciò con “Essere o non essere” di Ernst Lubitsch, un paio di estati fa – il 6 giugno uscirà “Mon Oncle” con Jacques Tati. Seguito, a scadenza settimanale, da “Play time”, “Le vacanze di Monsieur Hulot”, “Giorno di festa”.

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