Contro la street art
Critico la street art ed è già un risultato, nel momento in cui questa forma artistica (indiscutibilmente artistica) viene omaggiata acriticamente ovunque, dai marciapiedi ai musei. Critico la street art per elogiare alcuni (pochi) artisti e per deplorare altri (molti) artisti appartenenti al medesimo filone. Perché ogni artista ha diritto di essere valutato singolarmente (le responsabilità sono sempre personali), così come ogni opera va esaminata tenendo conto del suo contesto. Tuttavia credo che la street art, o muralismo, o arte urbana che dir si voglia, abbia parecchie colpe intrinseche, alcune perfino indipendenti dalla qualità estetica delle opere.
La street art è conformista. I muri pittati sono miliardi e io non sono onnisciente né onnivedente, quindi non escludo che esempi di arte urbana anticonformista da qualche parte esistano ma devono essere molto ben nascosti, mai mi sono imbattuto in un murale disallineato rispetto al pensiero dominante nei media riguardo ideologie quali ambientalismo, animalismo, immigrazionismo, omosessualismo… Non ho mai sentito di un Banksy censurato da Facebook mentre il medesimo social si è sovente accanito contro eccellenti pittori su tela quali Roberto Ferri e Riccardo Mannelli, per tacere di Courbet. Un’arte protetta da Zuckerberg, il potere vero, e promossa da multinazionali come Ikea, e collezionata dai maggiorenti di Hollywood, ad esempio Angelina Jolie e Brad Pitt, non ha il diritto di atteggiarsi ad arte di protesta.
La street art è faziosa. Su tela preferisco il figurativo ma su muro preferisco l’astratto: perché per forza di cose è il genere meno ammiccante, meno politicante. Di Andreco e 108 ammiro i risultati formali, di Obey e di Blu detesto la propaganda. I tabelloni elettorali sono equamente divisi fra le diverse liste e quando alla tv di stato i politici di opposizione vengono sottorappresentati giustamente si alzano proteste, mentre sui muri delle periferie il dominio del partito artistico unico è incontrastato. Nessuno dice niente, nessuno solleva il problema perché la street art è il nuovo tabù dell’arte, chi osasse criticarla rischierebbe la denuncia per passatismo aggravato. Io delle denunce me ne impipo e dichiaro di aver goduto quando alcune opere bolognesi di Blu, un signore di Senigallia a cui piace fare il misterioso, sono state strappate dai muri e trasferite in un museo. Proprio perché Blu è bravo e proprio perché Blu è fazioso, il museo è il posto giusto per lui. La soluzione museale consente agli ammiratori di ammirarlo e agli insofferenti di risparmiarsi i suoi comizi murali. Tutto ciò si chiama libertà di scelta, solo che molti artisti urbani non sono per nulla democratici e agli osservatori vorrebbero concedere solo la libertà di applaudire.
La street art è gonfia. L’impatto della maggioranza delle opere di street art è dovuto alle dimensioni. Prendete una street opera e portatela a dimensioni umane: spesso ne sortirà un’illustrazione, dimostrando che non si tratta di grande arte bensì di arte grossa. Mi viene in mente il Cristo di Maratea, statua colossale che nemmeno il cristiano più volenteroso può immaginare come modello di finezza. In un recente libro-intervista David Hockney, uno dei massimi pittori viventi, ha detto che “la dimensione ha il potere di sopraffarci”. Ecco, l’ingombrante street art ha qualcosa di sopraffattorio e la critica d’arte ha il diritto anzi il dovere di difendere il resto dell’arte, specie i suoi esiti più colti e sottili, da tanta protervia.
La street art è disumana. Di rado i muralisti hanno nomi da cristiani, perché sono disumani. La street art si ammanta di pseudonimi che fanno venire voglia di citare lo Schopenhauer innervosito dai corsivisti anonimi: “Di’ il tuo nome, mascalzone, oppure taci!”. Manu Invisible, che pare sia sardo, si presenta indossando una nera maschera da mamuthones moderno e vanta temi e soggetti “quasi disumani”. Contento lui. Altro notevole esempio di disumanesimo da strada è il gigantesco lavoro realizzato da Blu a Saragozza contro la tauromachia, un minotauro di non so quanti metri che schiaccia fra le dita un minuscolo torero, classico esempio di regressione all’epoca pagana dei sacrifici umani. Senza contraddittorio alcuno: non esistono muralisti favorevoli alla corrida o magari esistono e si sono autocensurati o magari esistevano e sono stati linciati. Ericailcane è animalista fin dal nome e riempie i muri di coccodrilli e altre bestiacce dipinte benissimo e proprio per questo spaventosissime: sembrano pronte a lanciarsi sul passante e comunque saranno l’incubo perpetuo del povero dirimpettaio. Ancor più verosimili risultano i soggetti del belga Roa, ratti e rettili che inducono angoscia, creature di un sottomondo di morte e decomposizione. Non mi sembra un caso che sui muri della street art scarseggino i bambini.
La street art è cosmetica. Ossia un trucco. Tutti questi artisti sono i Diego Dalla Palma delle periferie scassate, vengono chiamati ad applicare strati di cerone street sui palazzi con vista sullo spaccio o sulla tangenziale. I residenti lamentano la mancanza di alberi, autobus, negozi, marciapiedi, vigili? Ecco che il sindaco manda i graffitisti, risparmiando un mucchio di soldi e facendosi bello sulla stampa. Gli amministratori pubblici usano le bombolette spray come gli esploratori europei usavano le perline di vetro: per abbindolare gli indigeni.
La street art è sradicante. Esistono eccezioni (la morte di Pasolini dipinta da Nicola Verlato a Tor Pignattara, la storia di Roma sintetizzata da William Kentridge sul lungotevere…) ma il grosso della street art è spaesante fin dal nome anglofono. Indifferente alle culture nazionali e locali, la più globalista delle forme d’arte trasforma tutto quello che tocca in una periferia americana, anche il centro storico di una città meridionale, per dire. Il vecchio cuore di Catanzaro necessitava di un amorevole restauro e gli hanno tirato addosso una gragnuola di bombolette, l’Altrove Festival. “Lo sradicamento è la condizione preliminare della superfluità”, scrive Hannah Arendt, e gli artisti senza patria che trattano le città come supporti intercambiabili rendono quelle città superflue.
La street art è rumorosa. La colonna sonora della street art non sono i minuetti di Boccherini e nemmeno i fiati rarefatti dei jazzisti Ecm, lo sanno tutti. Il suono naturale dei graffiti è il rap turpiloquente e risentito oppure lo scratch che è un rumorismo hip hop, due generi ormai vecchiotti e in questo non c’è nulla di strano perché sonorizzano una forma d’arte che ha più di trent’anni, un fenomeno anni Ottanta da noi scoppiato col tradizionale ritardo delle periferie dell’impero. Un certo muralismo un po’ ammuffito (Etnik mi ricorda la video-arte dei primordi) può benissimo abbinarsi al pop-rock più polveroso: oggi a Milano anzi ad Assago si apre la prima edizione di Start, “street art fest” nell’ambito di un festival musicale i cui nomi di punta sono Santana, Robert Plant, Battiato, Alice, Sting, Duran Duran, e, non ci volevo credere, Roberto Vecchioni.