Love is in the air

La rivoluzione di Banksy

Francesca Parodi
“I graffiti erano la cosa che amavamo di più, li facevamo sull’autobus tornando a casa da scuola. Tutti li facevano”. E’ così che un ragazzino di Bristol ha cominciato a dipingere sulle pareti pubbliche per poi diventare uno dei più grandi writer internazionali.

“I graffiti erano la cosa che amavamo di più, li facevamo sull’autobus tornando a casa da scuola. Tutti li facevano”. E’ così che un ragazzino di Bristol ha cominciato a dipingere sulle pareti pubbliche per poi diventare uno dei più grandi writer internazionali. Le opere di Banksy sono partite dagli autobus, hanno attraversato i muri di decine di città sparse per il mondo e sono arrivate all’interno dei musei, l’ultimo dei quali è quello di Fondazione Roma a Palazzo Cipolla, in via del Corso, che da maggio a settembre dedica all’artista la mostra “Guerra, capitalismo&libertà”. Sono ospitati non solo diversi suoi dipinti, ma anche stampe, sculture e oggetti rari, molti di questi mai esposti in precedenza e che la Fondazione Terzo Pilastro ha raccolto da collezioni private. Anche chi non ha mai sentito prima il nome di Banksy ha senz’altro avuto modo di vedere qualcuno dei suoi graffiti: circolano continuamente su Internet, sono stampati su magliette, poster, tazze e gadget vari.

 

Il motivo per cui il writer inglese è diventato così popolare è la sua capacità di tradurre in un linguaggio artistico semplice e d’impatto grandi temi legati alla politica, alla cultura e all’etica. Banksy ha cominciato la sua attività negli anni ’90, quando la street art era già in gestazione, ma è stato lui il primo nell’arte occidentale a richiamare l’attenzione di un pubblico così vasto, sbattendo in faccia allo spettatore gli orrori della guerra, sottolineando le contraddizioni del capitalismo e mettendo in guardia dalle insidie che si nascondono dietro al nostro modo di percepire e vivere la libertà. Per poter comprendere pienamente il senso dei suoi lavori è perciò necessario conoscere il contesto storico-culturale in cui sono inseriti. Le sue immagini rappresentano persone comuni e anonime oppure politiche, a volte sono fotografie o riprendono slogan e format pubblicitari. La tecnica prediletta da Banksy è lo stencil, che prevede l’uso di una maschera (cioè una sorta di stampo) appoggiata sopra la superficie da dipingere e su cui si applica la vernice, che riempie gli spazi vuoti.


E’ realizzata con questa tecnica per esempio “Family target”: rappresenta un padre, una madre e un bambino al mare, mentre stanno uscendo dall’acqua. Il figlio è in mezzo e tiene le mani dei due genitori. La sua testa però non si vede: al suo posto c’è il mirino di un fucile di precisione, che fa capire che la scena è rappresentata dal punto di vista di un cecchino. Sempre del filone della guerra e della repressione violenta delle manifestazioni popolari, fa parte anche “Have a nice day”: una fila di soldati è schierata ordinatamente ai due lati di un carrarmato. Sotto l’immagine, il titolo dell’opera. Altrettanto straniante è la sovrapposizione, usata in più graffiti, dello smile emotion (una faccina gialla sorridente) sui volti di soldati e persino della morte, rappresentata come uno scheletro ammantato e con la falce in mano. Ma l’immagine che forse impressiona di più è “Napalm”, che rielabora la drammatica foto in bianco e nero scattata durante la guerra in Vietnam nel 1972. Si vede Kim Phuc, la bambina che nella fotografia scappa nuda e in lacrime dal napalm, tenuta per mano da un pupazzo di Topolino e dal pagliaccio di McDonald’s. Rappresenta una critica al capitalismo e al consumismo (l’America ne è il simbolo d’eccellenza), un tema ripreso più volte in opere come “Jesus Christ shopping day”: Gesù Cristo appeso in croce con in mano dei pacchi regalo e dei sacchetti. Famoso anche “Trolleys” con un gruppo di tre indigeni che osservano sospettosi un carrello della spesa abbandonato nella savana e stanno per colpirlo con delle lance.

 

Grazie all’immediatezza di queste immagini, anche la persona più digiuna di arte riesce a cogliere il messaggio con uno sguardo, ed è proprio per questo che la street art si distacca nettamente dall’arte contemporanea, spesso troppo astratta ed enigmatica. Certo, i graffiti non possono essere paragonati agli affreschi rinascimentali per capacità tecnica, ma d’altra parte per Banksy l’aspetto fondamentale non è l’opera in sé, quanto il messaggio che essa veicola. L’artista parla esclusivamente con le sue opere, non avendo mai rilasciato interviste o dichiarazioni. Perché nessuno conosce la vera identità dell’artista: Banksy è un soprannome, è la sua firma, ma non si è mai mostrato in pubblico. Nel 2008 il Maily on Sunday aveva diffuso la notizia che dietro il nickname si celasse Robin Gunningham, un giovane di Bristol con la passione per il disegno. La voce fu poi smentita e fiorirono altre numerose congetture. Ma nel 2016 la tesi del quotidiano ha trovato un appoggio scientifico: i ricercatori della Queen Mary University di Londra hanno tentato di svelare il nome del writer ricorrendo al geographic profiling, un particolare metodo d’indagine matematico utilizzato per scovare criminali, che mappa informazioni pubbliche ed elabora un profilo a partire da dati geografici. Prendendo in considerazione l’area di Londra e Bristol, i ricercatori hanno applicato questo metodo ai graffiti di Banksy, individuando così una serie di “punti chiave” che sono risultati essere locali e parchi frequentati da Gunningham.


Protetto dall’anonimato (che comunque accresce la fama dell’artista, fornendogli un’aura di mistero), Banksy lavora in silenzio e nell’ombra. Come uno dei suoi ratti, protagonisti di molti suoi graffiti. “Loro esistono senza permesso. Sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in silenziosa disperazione tra il sudiciume. E tuttavia sono in grado di mettere in ginocchio intere civiltà. Se sei sporco, insignificante e nessuno ti ama, allora i topi sono il tuo modello”. E i murales vogliono riappropriasi degli spazi pubblici e rispondere ai cartelli pubblicitari delle aziende che bombardano i passanti con i loro messaggi, senza dar possibilità di replicare. Certo, a tratti questi graffiti incorniciati e appesi a pareti bianche sembrano animali chiusi in gabbia. La street art esposta in un museo perde un po’ della sua forza (paradosso: lo spettatore che guarda ammirato l’opera di Banksy, concorda nella critica a questa società materialista, si sente vicino allo spirito ribelle dell’artista, alla fine della mostra, sull’enorme lavagna messa a disposizione del pubblico, improvvisa un suo graffito con un gessetto), ma resta il fatto che questo è l’unico modo per vedere così tante opere di Banksy tutte assieme.

 

 

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