La nicchia umana, così l'uomo ha plasmato l'ambiente in cui vive
È stata la Rivoluzione industriale a trasformare l’uomo in distruttore del pianeta? L’attenzione in temi ambientali, ovviamente, è sempre consigliabile. La Rivoluzione industriale, certamente, ha creato molti problemi, oltre a offrire un numero ancora maggiore di soluzioni. Ma l’idea di fondo che l’uomo non dovrebbe alterare il paesaggio ha poco senso per la semplice ragione che paesaggi perfettamente naturali, in realtà, non esistono. Ciò vale per un paese come l’Italia, il cui aspetto territoriale è stato programmato e condizionato prima dall’agronomia etrusca, poi dalla centuriazione romana, e in seguito anche dal lavoro dei monaci medioevali. Ma uno studio dimostra ora che, evidenze archeologiche alla mano, lo stesso si può dire praticamente di tutto il mondo. “Le conseguenze ecologiche della costruzione della nicchia umana: Esame della conformazione antropogenica nel lungo termine delle distribuzioni delle specie globali”, è il titolo del documento. Autrice è Nicole Boivin, Senior Research Fellow della Scuola di Archeologia dell’Università di Oxford e direttrice del Dipartimento di Archeologia dell’Istituto Max Planck per la Scienza della Storia umana di Jena, che ha diretto un’equipe di ricercatori britannici, statunitensi e australiani. E a pubblicarlo è stato il “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, organo ufficiale della United States National Academy of Sciences.
Il lavoro è il frutto di dati archeologici raccolti nel corso di trent’anni ed esamina il modo in cui nel corso dei millenni l’uomo ha modificato gli ambienti con cui interagiva in tutto il pianeta. Nuove basi di dati su dna antichi, isotopi stabili, microfossili, l’applicazione di nuovi metodi statistici, l’uso del computer: il tutto dimostra che molte specie animali e vegetali furono coscientemente selezionate dai nostri antenati, e che le estinzioni su larga scala di specie per via dell’impatto umano iniziarono molto prima della Rivoluzione industriale. In molti casi, fu decisivo il cambio di uso della terra dovuto alla rivoluzione agricola del neolitico. In altri, bastò la caccia, in contesti in cui l’uomo fece irruzione all’improvviso: un’estinzione di massa avviene per esempio dopo l’arrivo degli antenati degli Aborigeni in Australia e un’altra dopo l’arrivo degli indiani nelle Americhe, alla faccia di tutta la sensibilità ecologista che a quelle etnie viene oggi attribuita.
Lo studio individua quattro fasi principali di questo impatto umano sul paesaggio. La prima è collegata all’espansione globale umana durante il tardo Pleistocene: l’Homo Sapiens, presente in Africa orientale 195.000 anni fa, si è diffuso in tutto il mondo 12.000 anni fa. E tra i 50.000 e i 10.000 anni fa si estinguono i due terzi di 150 specie di megafauna, con conseguenze decisive per la struttura dell’ecosistema e la dispersione dei semi. La seconda fase è quella della rivoluzione agricola. Iniziato in medio oriente 10.500 anni fa, l’addomesticamento di pecore, capre e vacche arriva in Europa, Africa e Asia meridionale in poche migliaia di anni. Effetto delle scelte di questa fase, i polli sono oggi sulla terra in numero triplo a quello degli esseri umani, e anche i cani si sono moltiplicati fino ad arrivare a una consistenza stimata tra i 700 milioni e il miliardo di esemplari, mentre i vertebrati silvestri si sono ridotti a cifre molto piccole. Terza fase è stata lo sbarco nelle isole, che significò un vero e proprio trasferimento di paesaggi, per l’arrivo del fuoco, della deforestazione e di nuove specie. Quarta fase, il boom del commercio con l’età del bronzo. Conclusioni del documento: dal momento che l’idea di restaurare un ipotetico “stato di natura” è impossibile, ogni approccio ambientalista deve essere per forza di cose pragmatico.