Servirebbe un gay pride speciale contro gli orrori dell'islamicamente corretto
Non sappiamo quando ma prima o poi arriverà il momento in cui tutto il mondo progressista si sveglierà e capirà che l’unica battaglia possibile per combattere alla radice il fondamentalismo di matrice islamica non è mettere tra parentesi la parola islamico accanto alla parola terrorista – il terrorista è sempre un terrorista senza aggettivo, lo Stato islamico è sempre uno stato senza aggettivo, gli attentati sono sempre escogitati da persone instabili che agiscono sulla base di proprie convinzioni personali e non sulla base dell’interpretazione estrema di un testo sacro chiamato Corano – ma è chiamare le cose con il loro nome, è guardare in faccia la realtà ed è denunciare l’obbrobrio autolesionista e negazionista dell’islamicamente corretto.
La rivendicazione dello Stato islamico per la carneficina di Orlando c’entra fino a un certo punto. Il problema è più grande e riguarda l’incapacità del progressista collettivo nel capire che l’islamicamente corretto non è solo patetico ma, come ha ricordato qualche settimana fa sul Corriere Angelo Panebianco, è anche pericoloso: fornisce alibi quando non se ne dovrebbero fornire e non aiuta le comunità musulmane a fare esplodere al loro interno il confronto fra le loro diverse componenti. Il ragionamento vale per attentati come quello della Florida ma vale per tutto il resto e vale per tutte le forme di violenza commesse in nome di una religione interpretata in modo fondamentalista. Gli atti di terrorismo compiuti dagli estremisti islamici non possono essere considerati sempre come dei gesti isolati ispirati dalla mente di un pazzo omicida ma devono spesso essere considerati per quello che sono: degli atti che riflettono anche alcuni princìpi che si trovano nel Corano. Aver paura di una certa interpretazione dell’islam non equivale a detestare l’islam (il Corano, come si sa, è eterogeneo e tra le sacre scritture si trovano testi che dicono alcune cose e testi che qualche versetto dopo dicono il contrario di queste stesse cose) ma equivale a ricordare qualcosa di più delicato e di più complesso. Equivale a denunciare che per ogni vignettista ucciso dagli islamisti a Parigi (i miscredenti vanno colpiti “tra capo e collo”, Corano, VIII, 2); per ogni gay ucciso dagli islamisti a Orlando (“L’omosessuale è la figura del trasgressore”, Corano, VII, 81); per ogni ebreo ucciso in un supermercato kosher di Parigi (“Tutti gli ebrei che vi capitano tra le mani, uccideteli”, Sirah, II, 58-60); per ogni donna yazida venduta come schiava dai fondamentalisti dell’Isis (“Le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere”, Corano, II, 223) c’è dell’altro. C’è un paese non governato dai terroristi dell’Isis in cui si auspica la rieducazione dei gay a colpi di impiccagione (Iran), in cui i leader dell’opposizione entrano ed escono dal carcere con l’accusa di “sodomia” (Anwar Ibrahim in Malesia), in cui i ministri chiamano “malati” gli omosessuali (Aliye Kavaf, ex ministro degli Affari femminili in Turchia) e in cui si considerano “eroi” (Hamas) terroristi che si fanno saltare in un centro commerciale di Tel Aviv.
Nel suo bellissimo libro intitolato “Pensare l’islam”, il filosofo francese Michel Onfray, da posizioni progressiste, ricorda alla sinistra che la difesa del multiculturalismo non vale meno della difesa dei diritti delle donne, della libertà di pensiero, della libertà di espressione e delle libertà individuali. Appiccicarsi in queste ore sul petto spillette con i colori dell’arcobaleno è certamente un bel gesto. Ma è un gesto che finisce lì se non si riconosce che “no doctrine is more violent to the gay community than Islamic doctrine” (Ayaan Hirsi Ali) e se non si deciderà, facendo propria la lezione di Onfray, di marciare tutti in piazza organizzando uno speciale gay pride per denunciare una volta per tutte i danni e gli orrori dell’islamicamente corretto e non coprirsi gli occhi con una spilletta colorata.