Vendola, storia di un altro mondo
Il racconto di Rep. sulla paternità di Nichi è encomiabile e delicato, ma sbilenco. Non si potrà mai essere indulgenti verso la costruzione chimica della persona umana, anche se presto sarà ordinaria e banale.
Francesco Merlo è andato a Montreal, Canada, per la prima intervista a Nichi Vendola sulla sua recente paternità. Comprensione e apertura mentale campeggiano nel testo, racconto o “narrazione” che si voglia dire, trattandosi di Nichi. C’è equilibrio. Anche la rabbia verso commenti italiani all’annuncio della “gestazione per altri” e del suo esito felice, “the baby is coming”, è stemperata, sa di genuino, di amaro, ma non è troppo censoria verso chi non capisce. Nichi si sente protetto. La casetta in Canada, l’appartamentino a Roma, la casetta a Terlizzi per coltivare la gioia delle radici, zie nonne e altre figure femminili che danno una mano, il suo compagno giovane con la testa sulle spalle, il bambino avrà tre passaporti (americano, canadese e italiano), la pratica per la tutela sarà evasa in condizioni civili accettabili o per via di legge o per via di sentenza togata, i bigotti e le femministe che hanno obiettato alla “gestazione per altri” se ne faranno un ragione. C’è l’amore, c’è il ruolo della scienza, c’è la demonizzazione della famiglia violenta (il femminicidio) e la glorificazione della famiglia per desiderio, intuita con affetto dal popolo che circonda Nichi. C’è magari un rimpianto ideologico, quel molto di comunismo immaginario del passato e quel poco di battaglia liberale per i diritti civili, ma la vita supera sempre sé stessa, e si può andare avanti tra letteratura (le poesie della nascita sono già stata consegnate all’editore) e politica e avventure dell’esistenza.
Il pezzo di Merlo aggiunge alla testimonianza, di per sé encomiabile, un tanto di prezioso e di raro, di favolistico, ma con misura, notazioni patetiche ma non melense, con la protezione dal freddo delle orecchie di Tobia, con la pulizia canadese degli interni, con l’accoglienza estrema e disinteressata agli immigrati (siete venuti in città, prendetevela), le pareti di legno chiaro, l’apparato per fasciare il pupo, la genealogia dei nomi di famiglia, la foto bellissima della coppia maschile che coccola il neonato, tutto a posto. Anche la parte più ibrida, quella dei costi dell’operazione e dei risarcimenti, è svolta con delicatezza: l’agenzia, il piccolo dono alla famiglia californiana della “gestante per altri” e alla donatrice di ovulo, il ricovero per il parto, le fees varie dovute, il latte donato per qualche tempo, l’allattamento o nutrizione con gli ottimi mezzi non biologici per il figlio biologico di Ed e desiderante e amoroso di Nichi. Come dicemmo qui all’epoca, andrà tutto bene e c’è un bambino in più che sarà accudito, e come dicono loro con il conforto del professor Veronesi tra vent’anni sarà tutto ordinario e perfino banale. La famiglia si promuove anche così, che volete. Certo si poteva adottare, e alla fine da parte di Nichi quella è proprio una via complicata all’adozione, alla tutela, più che alla paternità biologica surrogata da una maternità per altri, ma saranno poi fatti loro, uno si dice.
Eppure è una storia dell’altro mondo o meglio di un altro mondo. La carne e l’incarnazione hanno un posto sbilenco, legato al desiderio ma anche alla sua realizzazione tecnica, a un gesto solitario della volontà che supera la barriera della impossibile fecondità naturale negli amanti o coniugi, a un apparato che riformula nelle regole, nel commercio (inteso senza moralismi), nella persona umana trattata come strumento e non come fine kantiano, elaborata nell’ambito di un patto faustiano, e qui si parla della provetta e dell’alchimia e della distillazione della vita non del diavolo. La donna ha un ruolo non di assistenza, come nelle vecchie nutrici o balie, ma di generazione surrogata, il che è altra cosa. Senza essere bigotto, e senza minimamente alludere al fantasma evocato da Merlo del figlio della colpa, figuriamoci, coltivo il dubbio razionale e anche il rigetto istintivo di questo altro mondo così fatto. Probabilmente sbaglio, ma quando tutto sarà ordinario, generalizzato nella grande era igienista che ci attende e già si dipana sotto i nostri occhi, avremo perso qualcosa. Qualcosa che riguarda l’ordine della realtà esistenziale, la cooperazione efficace e carnale tra diversi in attesa di una vita nuova, e non c’entra solo la tenuta della Bibbia e delle sue terre promesse, che in sé non sarebbe poi poca cosa; in questa vittoria sulla sterilità c’è qualcosa di troppo, una superbia che s’intravede nell’umiltà dell’atto, e l’idea molto pratica che avere un bambino è un fatto eminentemente di laboratorio, un atto clinico. E che il quando e il come di una nascita, la scelta libera e innaturale di mettere in conto terzi la gestazione di un bambino, può essere programmato eugeneticamente, euamorosamente, eudesiderantemente, fottendosene dei protocolli che la storia naturale degli uomini e delle donne hanno contribuito a scrivere. Con tutta la voglia di ascoltare e credere a una favola, la reazione resta quella di Silvio Orlando in un noto film di Moretti: “Queste cose non raccontatemele, perché non le capisco”. E se le capissi, non sarei mai severo contro un bambino di tre mesi, mai censorio verso un amore quale che esso sia, ma nemmeno indulgente verso la costruzione chimica della persona umana.