Padri
Il progressista Pascale e la vena che si gonfia per il figlio ambientalista ma un po' borbonico
A volte nella scuola dove vanno i miei figli arrivano degli ambientalisti. Io mi lagno perché sono un progressista. Ora lasciamo stare mia figlia, pensa solo a studiare e va bene, mio figlio invece è quasi come ero io un tempo, cioè abbastanza sfaccendato. No, un momento, non proprio come me: io ero un totale perdigiorno – sempre rimandato, in italiano soprattutto. Nemmeno compiuta la maggiore età e già avevo la doppia tessera (Democrazia proletaria e Radicali) e stavo indaffarato con i ciclostili. Mio figlio, invece, studia, a volte il minimo indispensabile, a volte un po’ di più. Tuttavia è come me: il mondo fuori gli interessa più di quello dentro la classe. Quindi partecipa ai dibattiti. Dovrei essere contento, ma non posso nascondere la mia preoccupazione: quella di crescere un figlio reazionario. Che poi è buffa la vita. Mio nonno era iscritto al Msi, mio padre no, ma Almirante gli piaceva, e comunque, un tempo, ci litigavo. Vabbè c’entra il contesto. Erano gli anni Ottanta, vivevo a Caserta, in mezzo ai neoborbonici. Quelli amavano la monarchia e la tradizione secolare, gravida di valori – così dicevano. Tutti notabili. Avevano incorniciato pergamene con stemmi araldici. Io ero figlio di contadini, e che araldica potevo mai vantare? E comunque ero fiducioso nel futuro. Capivo, sentivo, che facevo parte della prima generazione che: a) poteva studiare; b) viaggiare; c) mangiare; d) possedere un po’ di soldi. Solo un secolo fa, se nascevi contadino avevi buone probabilità di rimanere contadino. I soldi, quelli poi… figuratevi.
C’è un quadro di Louis le Nain, il pasto dei contadini (1642). Le donne in piedi con i bambini, ed entrambe le categorie stavano sullo sfondo. Solo gli uomini seduti, in primo piano. I miei nonni mica erano diversi dai protagonisti di quel quadro. E’ singolare che quando la nuova generazione di commercianti e di imprenditori è venuta alla luce, gli scrittori hanno cominciato a prenderli in giro, come avidi parvenu. E invece portavano, oltre il capitale, idee e innovazioni. Ecco, negli anni Ottanta mi trovavo a far parte di una generazione che stava crescendo – e crescevano le idee e le innovazioni. Dunque: potevo mai tollerare quelli di destra, tutta tradizione e vecchi valori? Loro giocavano una partita facile: latifondisti che quando mai avevano investito qualcosa per la comunità. Semmai avevano sfruttato qualche muratore per far costruire una cappella funeraria o un bel palazzo. Noi progressisti combattevamo per il sol dell’avvenire. Loro per mantenere il loro esclusivo e araldico posto al sole. Voi pensate che sia un inquinatore? Ma figuratevi, c’ho pure la bicicletta.
Però mio figlio non è del tutto convinto: che basti la bicicletta. Se non ci fosse il dissenso – dice – le multinazionali farebbero i loro porci comodi. Mi attacca sempre con la questione delle multinazionali. Le conquiste le dobbiamo al dissenso, altrimenti le multinazionali fanno i loro porci comodi. E d’accordo – gli rispondo – vogliamo gli stessi obiettivi. Tuttavia ci dividiamo sull’uso degli strumenti. Gli strumenti sono protesi culturali. E gli faccio degli esempi: gli ambientalisti che ti fanno le lezioncine, specialmente nel settore agricolo, iniziano tutti con la stessa litania: il mondo distrutto dai quintali di chimica buttati nei campi. Che detta così fa impressione. Però prima della chimica il mondo era come quel quadro di Le Nain, nel 1800 l’85 per cento della popolazione (un miliardo) viveva sotto la soglia della povertà. Invece di usare immagini ricattatorie (quintali di chimica) bisognerebbe fare i calcoli: capire quando una dose di un principio attivo diventa veleno e quando invece ci aiuta a vivere meglio. E’ questo l’impegno per il futuro, questo fa di me un progressista e non un ambientalista tout court. Insisto: questi mica vi invitano che so, a iscriversi a Chimica a Fisica e trovare rimedi nuovi. No, con tono profetico dicono che bisogna fermarsi. Tirate le somme, rimpiangono il mondo di una volta.
E niente, lui risponde: a pa’, prima te fai senti’, poi fai i calcoli. Se prima fai i calcoli poi chi ti sente? Ho capito – dico – ma un intellettuale deve misurare, è un suo preciso compito. A pa’ – mi dice – te sta a parti’ la vena. E continua: un intellettuale deve dissentire, non puoi dar ragione a una multinazionale, è una regola di vita. E lo vedi – gli dico – sei ricattatorio? Se voi avete gli intellettuali indipendenti a noi poi spettano quelli dipendenti dalle multinazionali, e così ogni tentativo di misura è falsato in partenza. E qui lui la butta giù dura: leggiti i Wu Ming. I Wu Ming? chiedo io. Sì, mi dice, hanno scritto un articolo chiarissimo sulla questione multinazionali. I ragazzi li leggono, e mica i Wu Ming sono reazionari? Allora, cambio marcia e ricomincio daccapo: che ti devo dire, mi ricordate quei vecchi neoborbonici, tradizionalisti che vogliono mantenere lo status quo. E mi sembra strano, tu che dovresti andare avanti, crescere, cambiare il mondo con strumenti nuovi e tecnologici, finisci per contestare un vecchio progressista come me. A pa’ – mi dice – e dai, me stai a fa’ la lezioncina. A te ti rode perché non ti invitano mai, né a scuola né ai festival. Quindi da’ retta a me: lascia sta i calcoli, fatti senti’! Almeno la vena ti parte per un buon motivo.